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Fuori dal coro 2013
Anche quest'anno gli operatori del circuito "Sentieri di Cinema" presenti in laguna racconteranno su queste "pagine" il proprio punto di vista sulla Mostra del Cinema di Venezia.
Il gruppo, inoltre, farà parte della giuria CGS per il premio LANTERNA MAGICA 2013.
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02/09/2013
Giro di boa
Davvero questa settantesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia non finisce di stupire e regalare piccole perle che fanno la differenza fra le edizioni da ricordare e quelle da dimenticare a cerimonia di premiazione conclusa. È il caso di questo lunedì, giornata solitamente sottotono proprio per la sua natura di “passaggio” fra la prima parte della Mostra e la seconda, una giornata dedicata al “cambio della guardia” nel popolo degli accreditati che, in molti casi, optano per 5 giorni di Festival in luogo dei 10 programmati (scelta che dipende da vari fattori, primo fra tutti, quello economico). Ad ogni modo, pure in questa giornata dove partenze ed arrivi si sono avvicendati sulle zattere dell’imbarcadero di S. M. Elisabetta e Lido Casinò, il programma ha riservato piacevoli sorprese.
La mattinata è partita già con la marcia giusta grazie al film in concorso THE ZERO THEOREM di Terry Gilliam. Il regista americano di “Brazil”, “Le avventure del Barone di Munchausen” “Il re pescatore”, “L’esercito delle 12 scimmie”, nonché unico membro non inglese del gruppo dei Monty Python, prosegue, sulla scia di “Brazil” ad indagare le tematiche del controllo globale, della perdita dell’identità individuale, dell’incapacità biologica di sopportare un mondo perennemente interconnesso. Lo spunto è la sceneggiatura originale di Pat Rushin che vede lo stranito Qohen Leth (che suona all’orecchio come il biblico Qoelet), alle prese con la ricerca della dimostrazione matematica del non senso della vita. Il due volte premio Oscar Christoph Waltz, in versione ingrassata, depilata e depressa, dà corpo ad un antieroe borderline, non ultimo in una galleria di mostri metropolitani e futuribili. Dietro le quinte si muovono un luciferino Matt Damon e una sciroccatissima Tilda Swinton. Incredibile, come sempre nelle produzioni di Gilliam, l’originale apparato scenografico (tutto ricostruito a Budapest), un’iperbolica fantasmagoria ultra-pop a metà strada fra gli eccessi fotografici di David LaChapelle e i cromatismi di Niki de Saint-Phalle. Divertente.
Colpo di fulmine per il fuori concorso: LOCKE di Steven Knight. Un uomo in viaggio, di notte, una serie infinita di chiamate al cellulare per risolvere problemi ed arginare l’onda di piena di una vita che sta andando in frantumi. Copywriter e produttore pubblicitario, autore televisivo, sceneggiatore di fama internazionale e regista, l’inglese Steven Knight costruisce una sceneggiatura precisa al millimetro (un attore, una location per circa un’ora e mezzo di film) per dare l’impressione che tutto sia girato in tempo reale (in effetti il film è stato girato ben 10 volte dall’inizio alla fine e poi si è lavorato di fino in sede di montaggio). Il risultato è più che stupefacente: un solo attore (il bravissimo Tom Hardy che mette una bella ipoteca sulla Coppa Volpi) tiene banco per tutto il film e diversi personaggi che interagiscono solo vocalmente pur con tutte le caratterizzazioni del caso. Colonna sonora di pregio (Dickon Hinchcliffe) e studio sapiente delle luci e dell’inquadratura. Un prodotto “da festival” che speriamo possa varcare i confini della Laguna e circuitare nelle Sale. Sarebbe un peccato che altri spettatori non potessero goderne.
Nel primo pomeriggio colpisce duro allo stomaco WHITE SHADOW di Noaz Deshe. Artista multiforme, scrittore, musicista e filmaker (qui alla sua prima prova nel lungometraggio), Deshe impronta una fiction (intimamente documentaria) sulla strage degli albini in Tanzania. In primo piano la storia del piccolo Alias, albino, che dopo aver assistito al brutale omicidio e smembramento del proprio padre (è diffusa credenza che carne e parti del corpo degli albini abbiano poteri taumaturgici), viene spedito dal villaggio alla città, dove, però, i pericoli di rapimento e assassinio non mancano. Interamente girato con macchina a mano, denso di significativi estetismi e ricercatezze formali (tagli di luce abbacinanti, inquietanti suggestioni sonore), ma anche curioso sul fronte della narrazione (si tenta di restituire lo sguardo attonito del piccolo protagonista che non è in grado di decifrare tutte le informazioni che percepisce e pertanto lo spettatore è messo di fronte a segmenti di realtà dove i dettagli della trama sono frammenti spesso sconnessi), il film fa emergere un lato oscuro dell’Africa orientale, dei suoi riti ancestrali e del rapporto fra questi e le nuove “evangelizzazioni”. Accoglienza calorosa alla prima proiezione dedicata alla Stampa e agli Industry.
A seguire, per le Giornate degli Autori, LA MIA CLASSE di Daniele Gaglianone. Durante le riprese di un film che prevede la partecipazione di veri immigrati in un set che ricostruisce una scuola serale di lingua italiana, succede qualcosa che impone lo stop del regista. Ma i ragazzi non ci stanno, il film deve continuare con il contributo di tutti e la realtà prende il sopravvento sulla finzione. Il regista di origine anconetana, dopo il successo di “Nemmeno il destino”, “Pietro” e “Ruggine”, torna a Venezia con un prodotto di squisita fattura, pur nel suo essere minimale, che ondeggia fra realtà e finzione, vita e arte, documento e fiction, con un rigore formale tale da catalizzare emozioni e pensieri dello spettatore. Attraverso il gioco del Cinema, infatti, le storie raccontate dai ragazzi diventano reali testimonianze in camera look. Bravo, come sempre, Valerio Mastandrea. Un film che, la nostra Giuria dovrà tener presente per la Lanterna Magica.
Conclude la cinquina di questo lunedì 2 settembre il secondo film in concorso: ANA ARABIA di Amos Gitai. Una giovane giornalista ebrea deve intervistare familiari e vicini di casa di una donna sopravvissuta all’olocausto e convertita, in seguito, all’Islam. È l’occasione per scoprire una comunità composita e perfettamente integrata distante dai clichè arabo-israeliani. Girato in un unico, leggero e significativo piano sequenza di 85’, il film del maestro Gitai si apprezza come un apologo sulla tolleranza, e sul recupero dei valori della semplicità popolare quale unica strada per una convivenza pacifica a partire dal medioriente. Un film che non urla le proprie tesi ma scava in profondità e provoca lo spettatore con la leggerezza di una costruzione talmente raffinata da risultare impercettibile.
A domani con il prossimo aggiornamento.
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