RASSEGNA
STAMPA
a cura del CGS DORICO
IL DIARIO
DI BRIDGET JONES
Cineforum - Nico Guidetti
Bionda e, almeno in questo film, paffutella, Renée Zellweger presta
il proprio corpo ingrassato di qualche decina di chili al personaggio
uscito dalla penna di Helen Fielding, e, occorre ammetterlo, grazie a
lei e ad una coppia di attori straordinari, ma questo lo si sapeva da
tempo, come Jim Broadbent e Gemma Jones, quella che poteva restare una
commediola noiosamente banale sulle sfighe di una trentenne frustrata
sentimentalmente e professionalmente (si veda, sulla falsariga del film
in questione, il recente e insopportabile Le disavventure di Margaret),
diventa qualcosa di decisamente più credibile e simpatico.
Sia chiaro, lo standard non si discosta dalla formula ormai ben collaudata
nella recente filmografia inglese stile "Quattro matrimoni e un funerale":
prendere una trama da film sentimentale il più possibile semplice
e riconoscibile per qualsiasi pubblico (lui/lei è innamorato/a
di lui/lei, ma per una serie di equivoci si convince di non essere corrisposto/a,
finché un evento provvidenziale non chiarisce il tutto e consente
l'unione dei due amanti) e smontarne puntualmente e scientificamente gli
stereotipi, come ci hanno insegnato da tempo i Monty Python, inserendo
dettagli assurdi. Ad esempio, nel finale del film di Sharon Maguire, l'abbraccio
romantico sotto la neve, lungo una strada di Londra, dei due protagonisti
finalmente ritrovatisi parte da un piano stretto sul loro volto per poi
allargare a un totale che ci ricorda come lei, nella foga dell'inseguimento,
sia uscita indossando solo un paio di mutandine tigrate. 0 ancora, più
semplicemente, i maglioni e le cravatte idiote che il compassatissimo
avvocato interpretato da Colin Firth si trova costretto ad indossare perché
regalo di mammà.
Ecco insomma che la detenuta un po' cazzuta che il poliziotto Jim Carrey
doveva scortare in "Io, me e Irene" e di fronte alle cui foto
segnaletiche quest'ultimo non esitava a masturbarsi sotto le lenzuola,
diventa qui, seguendo una metamorfosi del tutto naturale, il tipo ordinario
che in ufficio siede alla scrivania di fianco alla tua ma che tu non degnerai
mai di un solo sguardo finché non sarà arrivata ad indossare
una minigonna capace di renderla ancora più goffa. Per dirla alla
Willy Pasini, con o senza erezione di mezzo, ciò che a Bridget
Jones manca non è né un carattere forte né un cervello
funzionante, bensì una buona dose di quell'autostima che le impedirebbe
di fumare come una ciminiera e di bere come un pesce, suscitando per lo
più disgusto e imbarazzo in chi le sta accanto.
Il fatto che un romanzo come quello di Helen Fielding prima, e un film
come quello di Sharon Maguire dopo siano diventati, per il pubblico femminile
angloamericano, un vero e proprio manifesto di rivalsa professional-sessuale
non deve stupire più di tanto, visto che, a quanto pare, in queste
due realtà sociali il motto ereditato dal mitico film di Hawks
secondo cui 'gli uomini preferiscono le bionde' ha ceduto, oggi come oggi,
il passo ai cosiddetti e diffusissimi blond jokes, freddure di gusto tipicamente
anglosassone e di matrice decisamente maschilista sulla fama di leggerezza
molto 'silly' delle ragazze bionde. Si dice ad esempio che il modo migliore
per far spuntare il sorriso sulle labbra di una bionda il lunedì
mattina sia quello di raccontarle una barzelletta il venerdì sera,
e via di questo passo, alimentando, sembra, quella forma di discriminazione
trasversale e sottile, ma non per questo meno crudele, un tempo regolarmente
applicata contro chi era rosso di capelli.
Anche senza scomodare, comunque, analisi di carattere pseudo-sociologico,
il difficile rapporto di Bridget con gli uomini risulta ai nostri occhi
ben più comprensibile se il panorama maschile sottoposto dal film
si riduce effettivamente a un gay, un donnaiolo e un divorziato antipatico
con la puzza sotto il naso. E' piuttosto nell'acuta rappresentazione della
quotidianità casalinga più squallida, tipica di un appartamento
di ragazza single, e dell'atroce e imbarazzante disagio vissuto dalla
protagonista in tutte le situazioni socialmente importanti, che il film
raggiunge alcuni dei suoi momenti più divertenti: si veda ad esempio
l'impietosa messa in scena della biancheria intima, a partire da un paio
di slip usati che si appiccicano alla coscia per finire con i classici
mutandoni beige da terza età che tutti noi ricordiamo indosso alle
nostre nonne; oppure il party di lavoro in cui, di fronte a Salman Rushdie,
la prima domanda che a Bridget salta in mente è 'Dov'è il
gabinetto?', o ancora l'esilarante festa di famiglia in cui la protagonista
interviene vestita da puttana perché nessuno si è ricordato
di dirle che il ballo in maschera sul tema preti e lucciole non si sarebbe
più fatto.
Sotto questa luce è chiaro che il diario diventa nel film non il
protagonista oggetto di un reale interresse, come il titolo lascerebbe
intendere, ma poco più che un pretesto narrativo utile per infilare
qua e là le caustiche riflessioni di Bridget su uomini e genitori.
E proprio questi ultimi forniscono quel secondo intreccio narrativo che
fa da contraltare malinconico e velatamente profetico agli occhi della
figlia: la coppia anziana in crisi, dove la moglie, dietro l'ostentata
esigenza di un'affermazione professionale e una gratificazione personale,
nasconde il bisogno di una vita sessuale decisamente più attiva,
come la gustosa scenetta dell'esibizione pubblica dello 'sbucciauova',
con tanto di schizzo finale, lascia bene intendere. A ricordarci, una
volta di più, come la felicità, forse, consista semplicemente
in una placida rassegnazione senile.
IL DIARIO
DI BRIDGET JONES
Vivilcinema - Barbara Corsi
Cosa può esserci di più moderno e antico insieme, di una
single trentenne ossessionata dalla linea e dalla moda, che fa un lavoro
interessante ma sogna il matrimonio, e per di più con l'uomo sbagliato?
Forse il successo del personaggio di Bridget Jones, nato dalla penna di
Helen Fielding e molto popolare nel mondo anglosassone, deriva proprio
da questo mix di femminilità contemporanea e tradizionale, che
rimanda alla letteratura classica e in particolare a Jane Austen: uno
dei due personaggi maschili si chiama Marc Darcy come il protagonista
di "Orgoglio e pregiudizio", e l'attore che lo interpreta, Colin
Firth, era stato Fitzwilliam Darcy in una fortunata versione televisiva
del romanzo, trasmessa dalla BBC alcuni anni fa.
Ciò che invece è assolutamente moderno, in questa traduzione
cinematografica del "Diario di Bridget Jones", è la confezione
da tipica commedia inglese, studiata secondo i moduli portati al successo
da "Quattro matrimoni e un furierale". La citazione non è
casuale: dietro a Bridget Jones c'è la stessa squadra dei film
di Mike Newell del 1994: lo sceneggiatore Richard Curtis, autore anche
della sceneggiatura di "Notting Hill"; l'attore Hugh Grant,
che qui introduce una variazione cinica al suo personaggio di innamorato
gentile, e la Working Title, casa produttrice di tutti i film citati e
anche dei recente "Billy Elliot". La formula è quella
ormai collaudata della commedia ironica e romantica, venata da un pizzico
di 'apparente' trasgressione, dal ritmo brillante e musiche accattivanti.
L'elemento nuovo rispetto alla confezione 'all british' è tuttavia
la scelta di un'attrice americana per interpretare un personaggio sentito
come profondamente inglese, scelta che è stata anche oggetto di
polemiche da parte dei lettori più appassionati. In realtà,
è una vera fortuna che Bridget Jones sia 'incarnata' nel vero senso
della parola, grazie a una decina di chili in più da Renée
Zellweger, che le porta in dote un po' della follia dei suoi personaggi
precedenti ("Betty Love", che uscirà in autunno, e "Io,
me e Irene"), salvandola dal rischio di eccessivo sentimentalismo.
Assoluta mattatrice dei film, la Zellweger conserva a Bridget la sua goffaggine
spontanea anche quando la sceneggiatura sterza decisamente verso i toni
romantici, puntando su una 'fisicità' comica che non si preoccupa
di essere gradevole, esattamente all'opposto delle mossette di Meg Ryan.
E di fisicità femminile si parla molto nel film, che mette a segno
le sue stoccate migliori proprio nella presa in giro dei canoni di bellezza/magrezza
e delle mille altre regole a cui da sempre le donne sembrano condannate
ad adeguarsi. Memorabile, a questo proposito, la scena della 'inquisizione'
a cui la protagonista viene sottoposta da tante 'coppie felicemente sposate',
e quella che sintetizza i suoi tristi momenti di solitudine amorosa, nei
quali la canzone 'All by myseIf' suona come un inno rigenerante per l'orgoglio
dei singIe.
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