DA ZERO A DIECI
Il Corriere della Sera - Maurizio Porro - 09/02/02
Dazeroadieci , opera seconda di Luciano Ligabue dopo Radiofreccia , è
un film dagli onesti limiti (sceneggiatura stereotipata, trappola della nostalgia
"made in Rimini", schematismo psico-politico), ma anche con molti
pregi nascosti, primo tra tutti una sentita democrazia dei rapporti umani, che
lo rendono spontaneo, vitale e simpatico, con l'innesto di una fantastica scena
in musical. Per raccontare il replay , dopo 20 anni, di un weekend al mare di
quattro 35enni che vogliono riacchiappare la dolce ala della giovinezza con
le quattro coetanee di allora (una sostituita nel frattempo), il rocker di Correggio
non ricopia la sindrome di Peter Pan e non si allontana dalle sue radici. Ma
s'inventa che tutto può essere votato, da uno a dieci, a partire dalla
vita stessa. Se il gioco è allegro e contagioso, una paletta non si nega
a nessuno, quello che nella storia merita un voto alto è il contagio
affettivo, il modo di liberare i fattori umani, di qualunque segno siano: su
8 protagonisti due sono omosessuali e una bisex, credo oltre la media nazionale.
Si tratta di realizzare un sogno proibito: il maniaco del blues terrà
il suo concerto, il gay si traveste da Mae West e sfila da drag queen secondo
una vetusta iconografia, il macho Baygon avrà la sua notte brava con
un harem, mentre l'infelice del gruppo si porta addosso il complesso di colpa
per un amico morto nella strage di Bologna nell'80. Prima che torni il lunedì,
ci sarà un lutto da roulette russa automobilistica, tanto che Dazeroadieci
si chiude nel segno della malinconia, ma non della rinuncia: poi si ricomincia.
La filosofia di Ligabue è che la vita è breve, dolce e sfuggente.
Non è uno scoop, ma ricordarlo sulla sciadi Fellini e Tondelli in una
sorta di mix tra Amarcord e Amici miei , produce un film di chiacchiere notturne,
dove questa generazione, i fratelli maggiori dell'Ultimo bacio , si espone al
gioco della verità e vorrebbe colmare i buchi del passato svendendo con
sincerità un dittico sempre attuale, Rimpianto & Rimorso.
DA ZERO A DIECI
Vivilcinema - Michele Anselmi
Da zero a dieci, che voto dare al secondo film di Luciano Ligabue? ll tormentone
adolescenziale delle pagelle attraversa, a mo' di rendiconto esistenziale, il
week-end riminese che il rocker di Correggio ha voluto raccontare a quattro
anni da "Radiofreccia". In verità aveva promesso, vista la
fatica devastante (benché ripagata da un successo clamoroso: 10 miliardi),
di chiudere col cinema: invece la storia di "Da zero a dieci" gli
è cresciuta dentro dopo l'ultimo tour, e così il fedele produttore
Domenico Procacci, sfidandolo su quel terreno, è riuscito a riportarlo
sul set. Resta la domanda. Che voto dargli? Sei meno meno. Come in "Radiofreccia",
ma in un percorso temporale opposto, anche qui la memoria riaccende curiosità,
voglie, desideri, e fa da leva ad una riflessione generazionale, anche impietosa,
sugli anni che passano e le responsabilità da assumersi. Purtroppo sul
piano drammaturgico il film appare inerte, frammentario, poco scritto, gli difetta
quella dimensione corale, in bilico tra nostalgia e amarezza, un po' alla "Grande
Freddo", che era nelle ambizioni. Sicché la scansione per giornate,
con tanto di cartelli, finisce con l'essere più un trucco stilistico
che un'intima necessità, un modo per inanellare, l'uno dietro l'altro,
gli episodi (spesso) scuciti della 'rimpatriata'.
'Coi voti cominciano appena nasci. Siamo qui per prendere e dare voti', teorizza
Giove, il tenero bluesman con moglie e senza figli che sembra il sosia di Stefano
Accorsi (è Stefano Pesce, omaggio voluto). Insieme agli amici di sempre
Libero, Biccio e Baygon (il primo in attesa di un trapianto di reni, il secondo
un medico gay, il terzo un vitalista fissato con Jim Morrison e le 'gnocche'),
Giove organizza un fine settimana estivo a Rimini: vent'anni prima, appena adolescenti,
vi conobbero e amarono quattro ragazze, le stesse, tranne una subito rimpiazzata,
che oggi, a sorpresa, rispondono all'invito. Stessa pensione: l'Ambra. Stesso
mare verdastro: l'Adriatico.
Immerso in una Rimini ubriacante e survoltata, un 'divertimentificio' che condensa
l'energia giovanile e ne asseconda i nuovi riti pagani, gli otto rievocano l'amicizia
veloce che fu, il sesso frettoloso e acerbo, le ingenuità adolescenziali
brutalmente azzerate, quel 2 agosto 1980, dalla bomba fascista alla stazione
di Bologna. E intanto, tra confessioni e goliardate, finte feste di compleanno
e corse a culo nudo in mezzo alla folla, si precisa il quadro esistenziale di
questi trentacinquenni confusi, tumefatti, attraversati da un'inquietudine a
fior di pelle. Inutile dire che, nello showdown finale, ci scappa pure il morto:
dentro un'arena alla 'Vad Max", dove una folle gara di velocità
fa da contorno a un indemoniato rave party.
'Rimini è come il blues. Dentro c'è tutto, francamente troppo',
recita una battuta del film. Eppure il ritratto della città romagnola
resta tutto sommato sullo sfondo, uno scenario frastornante e gasato nel quale
Ligabue, largheggiando in sequenze mute, dettagli al neon, frammenti di blues
e velocizzazioni a effetto, muove i suoi personaggi: ciascuno dei quali sembra
incarnare una categoria sociale, una risposta alla crisi della politica, un
anarchico modello di vita. C'è anche un balletto vagamente alla "Blues
Brothers", scandito da una canzone di Ligabue che ammonisce, a scanso di
equivoci: 'Abbiamo deciso che crederci ancora / non è una gran brutta
malattia'.