A BEAUTIFUL
MIND
Cineforum - Simone Emiliani
E' spesso pervaso da uno spirito 'classicista' il cinema di Ron Howard.
La sua opera è al tempo stesso nostalgica nell'intenzione di far
riemergere i generi cinematografici classici (quindi anche nostalgica
verso le modalità produttive di Hollywood tra la fine degli anni
Quaranta e l'inizio degli anni Cinquanta ma è al tempo stesso modernista
nel lasciare emergere l'inquietudine che si nasconde dietro una struttura
narrativa apparentemente lineare. La forma 'biopic' di "A Beautiful
Mind" è in questo senso ingannevole. Dietro la biografia di
John Nash, che ricopre un arco di tempo che va dal 1947 (anno in cui ha
cominciato a frequentare il corso post-laurea a Princeton) al 1994 (quando
riceve il Premio Nobel a Stoccolma), si nasconde invece un fantathriller
che si combina con la dimensione mélo sempre così pulsante
nei film di Ron Haward.
Intelligenze artificiali
Quella di John Nash non è la vicenda di un brillante matematico
poi costretto all'emarginazione accademica a causa della sua schizofrenia.
E' soprattutto la struggente e appassionante solitudine di un 'alieno'
in cerca d'amore ma incapace di comunicarlo, un po' come il personaggio
di Prot proveniente da un pianeta lontano in "K-Pax" di Iain
Softley o l'extraterreste umanizzato David di "A.I. -Intelligenza
artificiale" di Steven Spielberg. Opere queste così lontane
ma anche così aderenti ad "A Beautiful Mind" nel comune
senso di non-appartenenza del corpo con l'ambiente, nella stessa capacità
dei protagonisti di portarsi addosso quei chiaroscuri cromatici in cui
l'illuminazione li evidenzia ma contemporaneamente li nasconde. Inoltre
Nash porta con sé un numero di codice stampato sul braccio, utilizzato
nel momento in cui deve consegnare dei documenti segreti in una casella
di posta della Difesa.
Attraverso questo corpo estraneo, Howard penetra davvero con disinvoltura
dentro l'epoca della Guerra Fredda, senza mai mostrare nulla. Ciò
che si avverte incredibilmente in "A Beautiful Mind" è
invece quel clima di oppressione, quelle tracce dark così claustrofobiche
in cui le inquadrature di Howard sono sempre così avvolgenti, non-delimitate
(soprattutto nelle direzioni verticali) che portano progressivamente John
Nash dentro abissi sempre più profondi. In "A Beautiful Mind"
si sente addosso quell'oppressione e quella tensione incalzante di "Ransom-il
riscatto", comuni nell'accumulare e ritardare quell'inquietudine
che si sente epidermicamente, nel disperdere i protagonisti in un vortice
che esaspera il loro smarrimento e li porta dentro una progressiva perdita
di realtà. Ma, ancora, 2A Beautiful Mind" potrebbe idealmente
considerarsi come il punto conclusivo di una 'trilogia sul diverso' (da
intendersi in un'accezione diversa rispetto allo spirito di Tim Burton,
in quanto nei protagonisti di Howard è più evidente la consapevolezza
di essere guardati dall'esterno), iniziata da "EDTv" e proseguita
con "Il Grinch".
Ed Pekurny, il commesso di una videoteca che accetta di essere ripreso
in diretta televisiva 24 al giorno di "EDTv" o il mostro verde
che ha sua abitazione in cima a un monte separata dagli altri abitanti
di Kinonsò in "Il Grinch" vivono, con John Nash, in una
realtà parallela, onirica e/o 'ricostruita', in cui viene drammaticamente
accentuata la loro impermeabilità verso l'esterno. Per il protagonista
di "EDTv" questa è costituita dal set televisivo, per
"Il Grinch" dalla distanza (spaziale ed emotiva) dalle altre
persone e dall'inaccessibilità della sua casa. Per John Nash invece
gli oggetti limitanti sono soprattutto il vetro e le porte. Sul vetro
della sua stanza a Princeton il protagonista di "A Beautiful Mind"
ipotizza le formule di un modello matematico assoluto, ma al tempo stesso
autoreclude la propria vista sull'esterno. Le porte invece sono quelle
chiuse della stanza del proprio ufficio (in cui i segni della sua presenza
sono evidenziati da pagine dei giornali attaccate sulle pareti) e soprattutto
quelle dell'istituto psichiatrico che sembra come partorire un individuo
doppio, uguale e contrario a se stesso. Nas si chiude all'interno del
proprio territorio, si auto/separa, occultando volontariamente il proprio
sguardo.
Isolamento, come quello del Grinch, doloroso e volontario, che accentua
il senso di estraneità di un alieno in cui il peso specifico del
make-up è tutto sul corpo di un grande Russell Crowe, interprete
trasformista come in "Insider-Dietro la verità" che però
mantiene anche la dinamicità nella propria fisicità come
in "Il gladiatore" e "Rapimento e riscatto". Trucco
che lo appesantisce 'nel corso del tempo', nelle consistenti ellissi temporali,
e che si evidenzia in un volto sempre più ricostruito e nei movimenti
(soprattutto la camminata) dove convivono insieme creatore e creatura
(sorta di Frankenstein originato da se stesso), dove diventa insieme soggetto
e oggetto di una maschera/doppio immortale perché da sempre senza
vita. Ma ancora. Questi alieni del cinema di Ron Howard sono entità
che si sentono 'gli occhi addosso', che vedono i propri movimenti come
osservati.
Howard, con i protagonisti di "EDTv", "Il Grinch"
e "A Beautiffil Mind" depura pienamente il corpo cinematografico
sottoponendolo allo sguardo diegetico degli altri personaggi e a quello
extradiegetico dello spettatore. Ma sono anche gli orizzonti visivi dei
protagonisti della trilogia di Howard che sembrano ampliarsi. NelIa sua
ossessione di essere spiato, John Nash sembra possedere uno sguardo totale,
a 360' (mentre il raggio visivo normale non raggiunge nemmeno i 180'),
quindi uno sguardo in/umano, anormale, straordinario. I continui movimenti
circolari di Howard tendono all'aspirazione di filmare per intero il raggio
visivo dello sguardo di Nash, di racchiudere nella stessa inquadratura
ciò che vede davanti e, contemporaneamente, ciò che vede
dietro. Aspirazione negata dai limiti di un campo visivo per sua natura
delimitato. Ma anche aspirazione di un cineasta come Howard così
coraggioso e sfrontato nello spingere il suo cinema oltre, nel far vedere
- al di là dei generi - ciò che è irrappresentabile.
Visioni/Deliri
"A Beautiful Mind" è stato accusato, da una parte della
critica, di aver volontariamente omesso episodi riguardanti il vero John
Nash: la sua presunta omosessualità, l'episodio di un'altra donna
e un altro figlio (entrambi abbandonati alla povertà) che hanno
fatto parte della vita di Nash prima dell'incontro con Alicia. In realtà
l'opera di Ron Howard gioca di sottrazione, dissolvendo fatti e personaggi,
per materializzare visivamente le proiezioni mentali di Nash. In questo
senso "A Beautifil Mind" è autentico film visionario,
l'estensione al punto limite di uno sguardo-cinema che crea, da solo,
i propri personaggi, e le loro storie. Il compagno di università
Charles, la nipotina di Charles e l'uomo del Ministero della Difesa Parcher
rappresentano l'estensione di fantasmivampiri quasi carpenteriani ("Vampires"
e "Fantasmi da Marte"), i segni di un delirio di uno sguardo
condizionato da una mente che gli pone davanti agli occhi non quello che
c'è ma quello che dovrebbe esserci. Da questo punto di vista -
e ciò era già evidente in quel film potentissimo e sottovalutato
che era "Ransom" - Howard, dietro la sua apparente e depistante
'compostezza formale' è in realtà un autore sperimentale
e visionario capace di far vedere i segni della malattia e della follia.
"A Beautiful Mind" unisce miracolosamente la logica commerciale
con i segni riconoscibili di un autore tra i più significativi
del cinema hollywoodiano degli ultimi vent'anni, troppo frequentemente
considerato solo come un ottimo professionista. Se da una parte Howard
è un cineasta di sorprendente e diretta immediatezza, dall'altra
porta dentro un universo oscuro, servendosi, per quanto riguarda "A
Beautiful Mind", della fotografia di Roger Deakins (abituale collaboratore
dei fratelli Coen) per riproporre non soltanto un 'mondo perduto', ma
soprattutto un 'cinema perduto', quello di genere hollywoodiano degli
anni Quaranta e Cinquanta. In "A Beautiful Mind", come del resto
anche nel recente "Vanilla Sky" di Cameron Crowe, c'è
la dimensione reale che si mescola con la dimensione del sogno. Howard
e Crowe sembrano, con i propri film, riportare in vita con atteggiamento
nostalgico i propri 'morti viventi', dando vita quasi a un 'cinema sepolcrale'
caratterizzato da una volontaria ambiguità semantica. Qual è
l'immagine giusta? Quella che vediamo noi? quella che vede Nash? Non solo.
Attraverso lo sguardo del protagonista, Howard spinge al punto limite
le potenzialità della soggettiva, capace di riprodurre visivamente
non tutto ciò che c'è davanti al proprio sguardo, ma di
selezionare soltanto ciò che il proprio sguardo vuole vedere: gli
effetti rifrangenti sui cristalli; l'evidenziazione luminosa delle lettere
sui giornali che si incrociano e si scontrano sullo schermo secondo i
processi logici della mente di Nash; le combinazioni del cielo stellato,
in cui Howard sembra per un attimo ripossedere/riciclare quegli orizzonti
infiniti già portati sullo schermo con "Apollo 13"; l'osservazione
delle traiettorie originate dal movimento dei piccioni o da quello degli
uomini nei loro tentativi di seduzione con l'altro sesso.
Con "A Beautiful Mind" Howard ci porta dentro la dimensione
visiva di Nash, instaurando non solo una completa aderenza ma anche una
vibrante complicità. Si vede il mondo di Nash attraverso i suoi
occhi, si instaura con lui un legame epidermico che va al di là
della condivisione o meno delle sue idee o delle sue azioni. I fantasmi
di Nash sono anche i nostri fantasmi. Vivono dentro lo schermo anche se
non esistono proprio perché vitali ed emotivi come quelli di Eastwood
(soprattutto in "Mezzanotte nel giardino del bene e del male"
e "Fino a prova contraria"). Non a caso il cinema di Howard
è accomunato a quello di Eastwood nella sua dolente classicità,
dove ogni piano è sempre necessario in quanto visto come primaria
esigenza etica. Atteggiamento questo che riporta ancora indietro nel tempo,
nella elaborazione delle forme mélo costruite dentro lo studio
system ma anche la presenza di quell'insopprimibile 'umanesimo hawksiano'
(John Nash come un redivivo 'sergente York') composto dai temi dell'orgoglio,
dell'amicizia virile (il rapporto creato da Nash nei confronti Charles),
del corpo come forza gravitazionale pedagogica e dalle interazioni/contrasti
morali che emergono all'interno del gruppo.
"A Beautiful Mind" è l'ulteriore esempio di Ron Howard
come regista di un'altra Hollywood, così inserito nei meccanismi
produttivi, ma anche così personale e coerente. La forza straordinaria
del suo film consiste nel disperdere le coordinate temporali inquadrandole
come se si trattasse di un film contemporaneo, che porta in scena il presente.
Quindi, in un'operazione di traslazione nel Tempo e in una folle forzatura
critica, "A Beautiful Mind" potrebbe essere anche un film girato
da Ron Howard (considerato come uno registi più rappresentativi
della 'vecchia Hollywood') nel 1947 da inquadrarsi anche come un noir
gotico. Inoltre Howard ha la capacità di raccontare una storia
vera come se fosse falsa. La 'non-credibilità' di "A Beautiful
Mind" (accusa mossa al film di Howard da una parte della critica)
diventa così, in questo senso, non solo un punto di forza, ma anche
il segno di una reinvenzione dove la realtà resta soltanto soggetto
limitante da cui il cinema di Howard apre verso infiniti mondi im/possibili.
A BEAUTIFUL
MIND
Letture - Francesco Costa
Il nuovo film di Ron Howard (il quindicesimo, all'interno di una carriera
che ha portato l'ex Ricky Cunningham della serie Happy Days a misurarsi
con tutti i generi del cinema hollywoodiano, dal fantasy di "Cocoon"
al catastrofico di "Fuoco assassino" al dramma storico di "Cuori
ribelli") ha per oggetto qualcosa che non si vede. Lo suggerisce
già il titolo, con lucida chiarezza. "A Beautiful Mind",
una mente bellissima. Come si fa a 'vedere' una mente? A visualizzare
la 'bellezza' di un pensiero? Si possono vedere i gesti e gli atti prodotti
da quella mente, non la mente stessa al lavoro. Per di più, se
i gesti o gli atti fossero quelli di un pittore o di un architetto, una
qualche possibilità di visualizzare i processi creativi di quella
mente il cinema ce l'avrebbe pure.
Ma nel caso di "A Beautiful Mind" la mente in questione è
quella di un matematico, l'americano John Forbes Nash (attualmente settantaquattrenne,
premio Nobel per l'economia nel 1994). E un matematico, si sa, produce
calcoli e logaritmi, teoremi ed equazioni, formule e diagrammi. Tutte
cose visualizzabili, certo, ma difficilmente collocabili in una dimensione
'estetica'.
Ron Howard ci prova: mostra a più riprese il suo personaggio, interpretato
dall'ex gladiatore Russell Crowe, sorprendente per intensità e
aderenza al ruolo, intento a tracciare calcoli sui vetri e superfici trasparenti,
in modo che essi appaiano in sovrimpressione sul suo volto. Quasi a dire:
la bellezza della mente (di questa mente) coincide con gli schemi logici
e con i processi numerico-cognitivi che essa è in grado di produrre.
Numeri 'belli'
Sono 'belli', i numeri? Nella nozione di Nash, sicuramente sì.
Ma come nella concezione di quell'altro grande matematico novecentesco
che fu Codfrey Hardy (1877~1947), di cui si può leggere la breve
e illuminante 'Apololgia di un matematico' (1940), appena riedita da Garzanti,
un matematico non è un creatore di nuove idee, quanto un esploratore
mentale che scopre paesaggi inediti e traccia mappe astratte dell'universo.
Il suo 'genio' consiste nella capacità di vedere cose che gli altri
non vedono anche se sono sotto gli occhi di tutti.
Nel film di Ron Howard, il gesto ricorrente di Nash è, non, a caso,
quello che lo vede impegnato a cercare delle regolarità o degli
schemi recursivi nell'apparente disordine del mondo: così, egli
individua la forma di un ombrello nel brulichio informe di un cielo stellato,
ma studia anche, ad esempio, le reazioni ormonali dei suoi compagni di
università alla vista di una bella bionda, oppure analizza i movimenti
in apparenza imprevedibili dei piccioni, o riempie il suo studio di ritagli
di giornale nella speranza di incappare nello schema giusto, quello che
gli consente di trasformare in cosmos (in ordine, regolarità, legge
e armonia) l'inevitabile caos della realtà.
Come Godfrey Hardy, anche Nash è convinto che la matematica 'sia
quella perfettamente inutile, quella che è un piacere per se stessa:
come può esserlo un affresco, una sinfonia o una poesia. Con la
differenza che la matematica è universale e, forse, anche più
duratura delle altre arti: tanto che siamo ancora tutti pieni di ammirazione
per la matematica greca, mentre la lingua ellenica è dimenticata
da secoli e le tragedie di Euripide sono cadute nell'oblio.
E tuttavia - ci dice "A Beautiful Mind" - anche un matematico
come Nash non può dedicarsi all'astratta bellezza dei suoi calcoli
o alla prodigiosa luminosità delle sue geometrie proiettive. Deve
fare della sua matematica qualcosa di 'utile'. Deve trasferire la bellezza
non visibile nella sfera della visibilità utilitaristica. Sarà
riconosciuto e premiato per questo, John Nash: per le applicazioni che
i suoi teoremi hanno prodotto nel campo dell'economia (il Nobel per la
matematica non esiste ... !) e per gli effetti sulle scienze statistiche
e sulla distribuzione dei prodotti di consumo.
Ordine dal caos
Durante gli anni della 'guerra fredda', racconta il film di Ron Howard,
Nash viene avvicinato dal Pentagono che gli chiede un aiuto per decodificare
í codici comunicazionali dei servizi segreti sovietici. E lui (in
una scena-madre molto intensa, una panoramica circolare che ruota attorno
al suo volto circondato da pannelli con sequenze numeriche apparentemente
insensate) riesce a trarre, ancora una volta, un ordine dal caos. Riesce,
in altre parole, a decifrare il codice. Ma qui, su questa necessità
di rendere utile ciò che dovrebbe /potrebbe essere solo bello,
si innesta il trauma devastante che rovina la vita di Nash e fonda la
tensione drammaturgica del film: condannato a produrre ciò che
non si vede, Nash è ossessionato dal fatto di vedere ciò
che non c'è. Colpito da strane e violente allucinazioni paranoiche,
comincia a vedere personaggi che non esistono, e a inventarsi interlocutori-fantasma:
un amico di stanza negli anni dell'Università a Princeton, poi
una spia del governo che lo istruisce su ciò che deve e non deve
fare, quindi alcuni agenti russi che lo pedinano e lo controllano. Nella
prima parte del film lo spettatore vede con gli occhi del personaggio
e non dubita della verità delle sue relazioni. Ma poi, a poco a
poco, anche lo spettatore comincia come Nash a essere roso dal dubbio:
esistono davvero le figure che vediamo o sono solo un parto della mente
schizoide del matematico? Che grado di veridicità hanno le immagini?
Di quali strumenti di veridizione dispone Nash per appurare lo statuto
di realtà di ciò che crede di vedere?
Da matematico qual è, la soluzione non può che essere logica:
quando si rende conto che la nipotina del suo presunto compagno di stanza
gli si ripresenta davanti sempre identica anche a distanza di anni, quando
percepisce la stravaganza del fatto che la bimba non cresca mai e che
sia in qualche modo sottratta al divenire del tempo, allora anche Nash
inizia a dubitare, e a pensare che quelle figure siano fantasmi mentali
e non presenze reali. Ma proprio qui si innesta il dramma del personaggio:
la sua mente non produce schemi, caso mai li scova; e tuttavia partorisce
incessantemente spettri persecutori e figure allucinate.
Il fascino del film di Ron Howard risiede in gran parte proprio nella
messinscena di questo conflitto: nella lotta di un personaggio (un genio?)
contro i misteri e i segreti invisibili della sua mente. Nell'intensità
emotiva con cui la visibilità degli interventi terapeutici e farmacologici
sul corpo del 'malato' (iniezioni di torazina e di insulina, elettroshock,
ecc.) cozza contro l'invisibilità del conflitto che agisce in lui
e nel suo modo di relazionarsi al mondo. Nella perfezione con cui questa
lotta invisibile si traduce in gesti e comportamenti visibili e concreti
(Nash si gratta la fronte, abbassa gli occhi, dondola la testa, distoglie
lo sguardo, brancola e tentenna, secondo una semiotica gestuale di grande
efficacia).
Non è la prima volta che il cinema porta in scena figure di matematici
alle prese con inafferrabili fantasmi mentali: ci avevano già provato,
ad esempio, Mario Martone con il Renato Caccioppoli di "Morte di
un matematico napoletano" (1992), Derek Jarman con il suo "Wittgenstein"
(1993) o Gus Van Sant con la lucida follia del suo "Will Hunting-Genio
ribelle" (1997). E tuttavia, "A Beautiful Mind" ha qualcosa
di diverso: con la sapienza del grande cinema hollywoodiano, sa trasmettere
al pubblico una commozione autentica. Sa far riflettere in modo non banale
sulla bellezza e sui misteri della mente umana. E sa portare fin sulla
platea degli Oscar (dove ha vinto come miglior film), in genere bramosi
di celebrare il successo, l'ambizione e la vittoria, valori controcorrente
come la paura, l'incertezza, la sconfitta e il sacrificio.
|