FAVOLOSO
MONDO DI AMELIE (IL)
Cineforum - Matteo Bittanti
Il cinema sta attraversando una fase di profonda trasformazione. L'avvento
del digitale ne sta ridefinendo la natura: non solo a livello produttivo
e distributivo, ma anche e soprattutto estetico. In questo senso, "Il
favoloso mondo di Amélie" (d'ora in poi, "Amélie"),
è un testo paradigmatico, un esemplare di un nuovo cinema che usa
la tecnologia e gli effetti speciali per finalità poetiche e non
meramente strumentali. "Amélie" fa infatti da ponte tra
il cinema francese degli anni Trenta-Quaranta e quello contemporaneo.
Per capire ed apprezzare appieno un testo così complesso ed articolato
può essere utile - o indispensabile, a seconda dei punti di vista
- fare ricorso al concetto di remediation o 'rimediazione', formulato
da Richard Gruisin e Jay David Bolter. Questo modello rappresenta uno
strumento teorico prezioso per esplorare il rapporto tra nuovi e 'vecchi'
media, e per 'leggere' in modo approfondito alcuni testi (film, video
clip, video games etc.).
Il modello della 'rimediazione'
Secondo il modello della remediation, i new media operano un recupero
mediato, consapevole, strutturato dei media tradizionali attraverso processi
di incorporazione, citazione, recupero e trasformazione. La rimediazione
è il frutto dell'interscambio tra due dinamiche strettamente connesse
tra loro e che gli autori definiscono immediacy (immediatezza) e hypermediacy
(ipermediatezza). Con 'immediatezza' Bolter & Gruisin intendono lo
stato di coinvolgimento diretto o trasparente del fruitore nei confronti
di un testo o di un medium tout court. 'Ipermediatezza' si riferisce invece
allo stato di consapevolezza della natura opaca del medium e delle dinamiche
linguistiche e comunicative che tale medium attiva. La remediation scaturisce
dall'interazione tra questi due processi. Nelle formulazioni di Bolter
e Gruisin, il processo della remediation opera a livello trasversale e
coinvolge tanto media analogici tradizionali (film e televisione), quanto
forme digitali di media tradizionali (fotografia digitale e grafica computerizzata),
nonché media essenzialmente digitali (video giochi, virtual reality,
prodotti multimediali per PC nonché il world wide web).
Il carattere essenziale dell'immediatezza consiste nella percezione di
un medium come 'trasparente' da parte del fruitore. In altre parole, l'immediatezza
ha luogo quando chi legge un testo non è consapevole del medium
che lo ha prodotto, del medium in quanto meccanismo, hardware. La fruizione
prevede quella che Coleridge definiva 'una deliberata sospensione dell'incredulità'.
Lo stato di immediatezza consiste in 'una trasmissione diretta dell'esperienza';
nella sensazione di coinvolgimento massimo del fruitore nei confronti
dell'opera fruita; nella percezione di un'opera come un qualcosa di 'compatto',
organico, 'e spontaneo' che determina una sorta di 'scomparsa del medium'
e dell'artista stesso nell'opera; la credenza nella realtà ontologica
dell'immagine e del portato culturale che essa veicola, nonché
la possibilità di vedere 'attraverso l'interfaccia'. In un senso
più ampio, il concetto di immediatezza accompagna tecniche, modi
di rappresentazione e stili propri di media tradizionali la pittura fotorealistica,
la recitazione di tipo 'naturalistico', la stessa concezione prospettica
di tipo rinanscimentale e così via.
Il processo dell'ipermediatezza è, per certi versi, opposto a quello
sopra descritto. La sua caratteristica cruciale consiste in una certa
'opacità' del medium rispetto alla percezione del testo da parte
di un fruitore. L'ipermediatezza si attiva cioè ogni qual volta
il fruitore è consapevole del medium e del processo di mediazione
in atto. Altre caratteristiche dell'ipermediatezza sono 'il piacere che
scaturisce dal riconoscimento dell'atto della mediazione'; l'enfasi sui
processi di costruzione dell'opera rispetto all'opera in quanto tale;
l'esaltazione della 'frammentazione, indeterminazione ed eterogeneità';
una certa elasticità nel concetto di realismo della rappresentazione;
l'idea che l'esperienza del medium sia 'un'esperienza del reale in quanto
tale', nonché l'attenzione per l'interfaccia, anziché per
ciò che si vede attraverso l'interfaccia. Secondo Bolter e Gruisin,
l'archetipo dell'ipermediatezza è il world wide web. Altri esempi
sono l'arte concettuale, i video giochi, la scrivania virtuale del PC,
la parodia, il cinema d'avanguardia, la tecnica modernista del collage
o fotomontaggio e tutto ciò che viene generalmente definito 'postmoderno'.
Il processo di remediation è bilaterale. Coinvolge, cioè,
tanto i nuovi media quanto quelli vecchi. In altre parole, così
come i nuovi media operano una rimediazione dei vecchi, così quelli
tradizionali tentano di 'rimediare' quelli nuovi. Per esempio, film fanno
ricorso alla computer grafica per incrementare il loro impatto e la loro
immediatezza. In un film come "Terminator 2", sostengono gli
autori, 'gli spettatori sono invitati ad interpretare il film come una
celebrazione della tecnologia e perché questo processo abbia luogo,
il film deve presentare una cosmesi che è allo stesso tempo paradossalmente
incredibile - nel senso di non credibile - e credibile'. Un medium può
anche rimediare se stesso. In questo senso, si parla di omaggio, plagio
o copia. Si pensi al modo in cui Brian De Palma riprende, reinventa e
'commenta' il cinema di Hitchcock. E a proposito del cinema di Hitchcock,
Bolter & Gruisin usano "La donna che visse due volte" ("Vertigo",
1958) come testo che sintetizza in modo esemplare alcuni i processi di
immediatezza ed ipermediatezza in atto nel cinema classico hollywoodiano,
Rimediando "Amélie"
Amélie rappresenta, a nostro avviso un esempio ancora più
emblematico d rimediazione. L'operazione di Jeunet è infatti estremamente
complessa e merita di essere descritta nelle sue caratteristi che essenziali.
Il regista francese non si è limitato, infatti, a riprendere, commentare,
appropriare, ricontestualizzare altri testi filmici, ma ha utilizzato
una pluralità di codici, tecniche e linguaggi provenienti da aree
espressive eterogenee e proprie di media assai differenti tra loro. Tentiamo
allora di abbozzare una mappatura 'rimediata'.
In primo luogo, l'animazione. L'influenza dei cartoni animati è
palpabile in ogni singolo fotogramma di "Amélie". Non
va del resto dimenticato che Jeunet ha esordito proprio con cortometraggi
animati - "L'evasion", 1978; "Le Mabège", 1980;
"Pas de repos pour Billy Brakko", 1984 - realizzati insieme
all'artista Marc Caro, con il quale realizzerà anche "Delicatessen"
(1991) e "La città dei bambini perduti" (1995). "Amélie"
può essere interpretato, allora come un omaggio a Tex Avery, ma
anche all'estetica di Jacques Tati e, più in generale, ai cartoni
animati. Pensiamo alla scena della tragica morte della madre di Amélie,
schiacciata sotto il peso di un suicida gettatosi dall'alto di Notre Dame,
che rimanda immediatamente alle trovate dei cartoons con Wile E. Coyote.
E la scena girata nella stazione della metropolitana di Abbesses, che
segna il primo incontro tra Amélie (la Audrey Tatou di "Venus
Beauty Institute, Happenstance") e Nino Quicampoix (Mathieu Kassovitz)
rimanda all'immaginario dell'animazione: Amélie - con la sua chioma
a caschetto, le scarpe nere sproporzionate, il maglioncino rosso, rimanda
ipertestualmente al personaggio di Olive Oyl, la fidanzata di Braccio
di Ferro. E non dimentichiamo tutti i personaggi animati di cui Amélie
si circonda: dai coccodrillo dell'infanzia alla abatjour che si spegne
da sola.
In secondo luogo, la fotografia. L'opera di Jeunet è una straordinaria
riflessione sul medium fotografico. Questa rimediazione è attivata
tanto a livello narrativo quanto estetico e linguistico. Nel primo caso,
pensiamo alla presenza pervasiva di apparecchi fotografici, cabine e fotografie
tout court. Nino raccoglie le foto tessere abbandonate nelle stazioni
della metropolitana. Per converso, il prologo ci informa che Amélie
passa le sue giornate a fotografare il cielo di Parigi con la sua Instamatic
Camera. E una volta cresciuta, Amélie fa recapitare al padre una
serie di polaroid dello gnomo viaggiatore per convincerlo ad uscire da
casa ed esplorare il mondo. Infine, i titoli di coda sono costruiti come
un album di fotografie... A livello estetico, inoltre, la straordinaria
fotografia di Bruno Delbonnel (che qui ha sostituito il Darius Khondji
di "Delicatessen" e "La città dei bambini perduti")
privilegia cromatismi caldi ed intensi che contribuiscono a dare a Parigi
un look fiabesco o meglio, da libro di fiabe illustrato. Colori dai fortissimi
contrasti: toni seppia, rossi accesi, marroni slavati. Le immagini sono
come rivestite da un filtro verde-oro, ottenuto per mezzo della manipolazione
digitale. E la Parigi di Doisneau e Brassai. Una Parigi da cartolina d'altri
tempi, come quelle che si comprano nelle bancarelle ai lati della Senna.
"Amélie" 'rimedia' inoltre la pittura. Ogni singolo fotogramma
del film è dotato di una propria autonomia. 'Autarchia del quadro'
scriveva Noél Burch. La mise-en-scène è ricca al
punto da saturare lo sguardo. Il film è un colossale 'cut and paste',
un tour de force di graphic design. Anche in questo caso, la rimediazione
della pittura è esplicita: si pensi alla figura del pittore Raymond
DufayeI (Serge Merlin) che, recluso in casa da oltre vent'anni per via
di una malattia delle ossa, passa il suo tempo a ricreare, pennellata
dopo pennellata, le opere di Renoir. "Amélie" è,
anche grazie agli effetti speciali, un film 'impressionista'.
Jeunet recupera le convenzioni proprie dell'immaginario letterario della
fiaba, della poesia (Jacques Prévert in particore) e del romanzo.
Si pensi all'espediente della lettera indirizzata alla padrona di casa
(Yolande Moreau , che sembra uscito dalla penna di Bergerac, ma anche
al personaggio di Zorro, che viene citato direttamente. Anche in questo
caso, la forma letteraria trova incarnazione in un personaggio: Hipolito
(Arthus de Penguern). E non è affatto vero che "Amélie"
è un film zuccheroso. Jeunet non perde l'occasione per stilettare
lo spettatore con humour nero ed il cinismo tra le righe di un Kurt Vonnegut.
I genitori di Amélie sono presentati come 'neurotici' e 'freddi
come un iceberg' e, più in generale, i personaggi vivono nella
più completa solitudine. Solo per mezzo di una serie di stratagemmi
orchestrati dalla fanciulla riescono a comunicare tra di loro. In altre
parole, il film è permeato da un sottile velo di melanconia e di
tristezza, che nei film precedenti di Jeunet era tematizzata, ma che qui
rimane tra gli interstizi dell'immagine.
Pervasive, inoltre, le estetiche del videoclip e della pubblicità.
C'è uno spiccato rifiuto della frontalità: la macchina da
presa è collocata quasi sempre sopra o sotto i personaggi. In alcuni
momenti, i movimenti di camera tolgono letteralmente il fiato. La televisione
- ed il suo linguaggio - ricorre in numerose scene: dall'annuncio della
morte di Lady D., alle immagini dello sport (calcio, ciclismo, pattinaggio
artistico) fino alla lettera in ma di videocassetta che il pittore Raymond
- come l'O'Blivion di "Videodrome" fa avere ad Amélie.
E poi, il videogioco. A parte l'utilizzo della tecnica digitale - che
dei video giochi costituisce il linguaggio - il gioco si manifesta a livello
tematico. La vita quotidiana nella metropoli francese diventa una sorta
di caccia al tesoro - con tanto di indizi disseminati nello spazio urbano,
manifesti rivelatori e frecce direzionali. La Montmartre di Amélie,
come la Berlino di Lola corre, è allora uno spazio plastico, ludico,
una vera e propria area di gioco anziché mero background. E, come
nel film di Twyker, anche qui il ritmo è, specie in certi momenti,
vorticoso. Non va poi dimenticato che è proprio la scoperta di
una scatola di giocattoli nascosta nella toilette di Amélie a spingere
la ragazza ad intraprendere la sua crociata buonista. L'elemento ludico
è già presente nei titoli di testa - si pensi alle immagini
del domino o dei giochi di carta. Infine, come nei video giochi, i personaggi
'interagiscono' con lo spettatore, simulando un interscambio comunicativo
che prevede l'abbattimento della cosiddetta quarta parete.
L'ultima rimediazione è anche la più importante: il cinema.
Sono tante, tantissime le idee di cinema che il film riprende, aggiorna,
reinventa. "Amélie" può essere ricondotto, in
primo luogo, al nuovo cinema, al cinema digitale. La maggior parte dei
suoi fotogrammi sono stati infatti manipolati, alterati, modificati con
l'uso del computer. Trasformazioni cromatiche, effetti speciali, pulizia
digitale dell'immagine. Il risultato è che la Montmartre di Jeunet
rimanda ipertestualmente a quella di Baz Luhrmann: i due registi, peraltro,
condividono la medesima passione sfrenata per la cultura pop. Amélie
come Satine, cento anni dopo. Montmartre e Parigi come luoghi fuori dal
tempo e dallo spazio, microcosmi fiabeschi in cui le nuvole hanno la forma
di peluche. L'estetica della nostalgia, nostalgia per un tempo che non
esiste se non nell'immaginazione dell'autore. E qui gli effetti speciali
curati come per i film precedenti di Jeunet, da Duboi - sono manifestazione
degli affetti speciali dei personaggi: pensiamo alla scena nella quale
Amelié si frantuma in una cascata di pixel quando non riesce ad
esprimere il suo amore per Nico. O al cuore rosso magenta di Amelie che
prende a pulsare come un cartello al neon nella stazione della metropolitana.
Il prologo, che ci presenta il personaggio di Amélie, è
uno straordinario poutpurri di stili. Dal cinema muto - con l'uso insistente
dell'interpellazione ma anche alla vitalità innocente della protagonista
- all'estetica di Mtv, con 'jump-cut', virtuosismi e montaggi frenetici.
Questa prima parte del film - che include l'elencazione delle preferenze
e delle idiosincrasie dei personaggi principali - riprende un lavoro precedente
di Jeunet, il cortometraggio "Foutaises" (1989), ma strizza
l'occhio anche all'estetica del cinema delle origini, il cinema delle
attrazioni di cui ha scritto a lungo Toni Gunning, un cinema caratterizzato
da quello che Burch aveva definito il 'modo di rappresentazione primitivo",
che Jeunet cita e stravolge allo stesso tempo.
Ma "Amélie" rimedia soprattutto il cinema francese, da
quello degli anni Trenta - pensiamo al realismo poetico di Marcel Carné,
Jean Renoir e René Clair - fino ad arrivare alla nouvelle vague.
Pensiamo a "Zazie dans le metro" di Louis Malle, senza dimenticare
la Parigi di Agnès Varda ("Cleo, dalle 5 alle 7") e "Jules
et Jim" di Truffaut, citato direttamente. Concludendo: "Amélie"
è il cinema che mette in scena il cinema. Cinema come meccanismo,
come finzione, come illusione. "Amélie" è tutto
quello che il cinema italiano attuale non è. Il suo è un
cinema visionario. Intelligente. Originale. Altamente ipermediato. Un
cinema fantastico, in tutti i sensi del termine. Quarant'anni dopo Michale
Drach - "Amélie ou le temps d'aimer", 1961 - è
ancora tempo di amare. Amare "Amélie" vuol dire, prima
di tutto, amare il cinema.
FAVOLOSO
MONDO DI AMELIE (IL)
La Repubblica - Roberto Nepoti - 27/01/02
Amélie Poulain, il dolce, bizzarro angelo custode di Montmartre,
plana tra noi già coronata di una spessa aureola mediatica. Nei
prossimi giorni si accettano scommesse cominceremo a descriverci (o qualcuno
lo farà a nostre spese) alla maniera in cui Jean-Pierre Jeunet
descrive i personaggi del film, con "quel che ci piace" e "quel
che non ci piace": diventerà uno dei tormentoni che nascono
al cinema e si diffondono nel gergo sociale, come "le cose per cui
vale la pena di vivere" di Allen o "dì qualcosa di sinistra"
di Moretti. Ma che aspetto ha, in definitiva, Il favoloso mondo di Amélie?
Nel film (di enorme successo in patria, vincitore dell'oscar europeo,
candidato francese all'Oscar con la maiuscola) c'è un personaggio
che ogni anno per vent'anni ha dipinto una copia conforme dello stesso
quadro di Renoir (padre). Alla fine lo riproduce ancora una volta, però
cambiandone figure e dettagli., E' la metafora di quanto ha fatto Jeunet
come sceneggiatore e regista: ha ricreato il clima dei vecchi film populisti
di Renoir (figlio) e di Prévert, ma reinterpretandolo con una sensibilità
contemporanea e un po' beffarda (nient'affatto buonista, dunque, malgrado
ciò che se ne è detto). Dopo un'infanzia solitaria Amélie,
un po' fatina un po' Zorro, si trasforma in paladina della felicità
altrui per compensare l'opacità della propria vita. E' innamorata
di Nino, Amélie: solo, non osa farsi riconoscere dal suo principe
azzurro. Poiché il film è una fiaba, c'è da giurare
che vivranno felici e contenti. Dopo il truculento "Delicatessen"
e una serie di altri titoli (tra cui il quarto "Alien") variamente
giudicabili, ma molto personali, Jeunet va a centro con una commediapiena
di fantasia, tenerezza e umorismo, fitta di personaggi disegnati con efficaci
tocchi da impressionista: l'odioso fruttivendolo e il commesso sognatore,
l'innamorato geloso e la barista ipocondriaca, il pittore malato e la
portinaia nevrastenica, il giovanotto che colleziona fototessera fatte
a pezzetti. Consapevolmente anacronistico (la storia si svolge nella Parigi
del 1997, ma il tempo sembra sospeso), volutamente eccentrico, Il favoloso
mondo di Amélie ha un po' l'aspetto di un "corto" allungato
a due ore; senza che ciò, per una volta, rovini il risultato. Le
invenzioni registiche si moltiplicano; i colori mutano, variando dall'acido
alla quasi-monocromia; gli effetti speciali offrono continue sorprese.
FAVOLOSO
MONDO DI AMELIE (IL)
Il Sole 24Ore - Luigi Paini - 03/02/02
C'è speranza se questo accade a Parigi. Il favoloso mondo di Amélie,
di Jean-Pierre Jeunet, è un albergo del sorriso. Il mondo così
come sarebbe piaciuto a Zavattini, e a Prévert, e a Carné:
le fate e gli gnomi possiamo essere noi, capaci di trasformare la realtà
che ci circonda con la sola forza dello sguardo.
Prendete Amélie Poulain (Audrey Tautou): avrebbe tutto il diritto
di tenere il muso da mattino a sera, di mandare a quel paese il prossimo
che le ha sempre giocato tiri poco simpatici. A partire dal padre vedovo,
prima medico e ora pensionato, sempre tanto triste ma tanto triste da
far venire l'angoscia appena lo si incrocia (figurarsi crescerci insieme).
La stessa Amélie, quasi quasi, ne restava marchiata per tutta la
vita: da bambina il cuore le batteva forte forte, ogni volta che il genitore
la visitava, e la diagnosi di una grave malattia era sempre certa...
Ma ora Amélie è grande (in tutti i sensi) e ha superato
molte paure. Fa la cameriera in un bar in cui lavorano solo donne (e i
clienti sono praticamente solo uomini), sogna l'amore vero ed è
sicura, ma proprio sicura che un giorno arriverà. Nel frattempo
osserva le cose, gli altri, la città, sensibile a quei particolari
che sfuggono alla maggior parte della gente, oppressa dalla fretta e dalla
distrazione. Vede al di là dei muri, sente e conosce quello che
gli altri soltanto sfiorano, segue le tracce di un tizio un po' fuori
di testa, convinta che le cambierà la vita. E Jeunet ci mette di
suo una fantasia prodigiosa, un gioco infinito di combinazioni e casualità,
tenute insieme dal collante di un divertito stupore narrativo. Sullo sfondo
la Parigi dei nostri sogni, quell'ente ideale che ognuno può costruirsi
a piacere, mischiando la sua personale sensibilità ai (perché
no?) più triti dei luoghi comuni.
Miracolo sotto la Tour Eiffel, capito dal pubblico e snobbato (in un primo
tempo) dai 'sapientoni': all'ultimo Festival di Cannes il film non era
nemmeno stato selezionato. In sala - qualche volta c'è grazia a
questo mondo! - è stato un trionfo.
|