La dimensione privata dell’individuo, in tempi di profonda crisi sociale ed economica come quelli che stiamo attraversando, sembra prevalere e imporsi nettamente su quella pubblica: come se le difficoltà spingessero a rifugiarsi in una sfera al riparo dagli sguardi altrui.
Come se la mancanza di lavoro e la scarsità di gratificazioni professionali portassero a guardare con nuovi occhi ai rapporti umani, beni inalienabili. Come se solo a partire dalla dimensione privata, che pure da questa difficoltà è continuamente messa in crisi, fosse possibile aggrapparsi a una speranza e immaginare la strada che porti ad un miglioramento vero, reale delle nostre vite.
Il “filo rosso” che lega tutti i percorsi di questa rassegna ci racconta proprio di come il “tradimento” del nostro essere, della nostra storia e della nostra autenticità sia alla base della frattura tra dimensione pubblica e privata dell’individuo; di come partendo dalla prima si ritrovi immancabilmente compromessa anche la seconda, o viceversa.
Già dal film di presentazione “LE IDI DI MARZO” i personaggi principali devono tutti fare i conti con situazioni che richiedono di dare spazio a freddezza e cinismo, di operare scelte che invadono sfere morali e etiche: i rapporti sentimentali come pretesto per cambiare il destino delle cose. La radiografia del sistema politico americano è tanto spietata quanto profonda, in grado di trasmettere la convinzione che sincerità e verità devono comunque prevalere per il bene comune.
Nel film trionfatore dell’ultimo Festival di Venezia “FAUST”, Sokurov costruisce un itinerario che per lui (e forse più per noi) è un viaggio nella coscienza individuale e collettiva, un esame e un confronto con la nostra intelligenza, al confine tra ragione e follia. Viaggio che sotto il profilo visivo l'autore rende affollato, denso, pieno di tutte quelle suggestioni che la nostra fantasia riesce a creare e che il cinema è in grado di restituire: il cinema che si fa sintesi di immagine, musica, letteratura, architettura, filosofia, il cinema che diventa luogo della sfida estrema alla creazione artistica come unica salvezza contro l'annullamento dell'anima.
Con “MIRACOLO A LE HAVRE” lo spunto è tratto dalla cronaca più urgente e pressante: i flussi degli immigrati in Europa, il modo di (non) accoglierli. "Non ho soluzioni da proporre - dice l'autore - ma ho voluto in qualche modo affrontare la questione, anche se in un film che ha poco di realistico". Fortemente legato alla cultura del Nord Europa, fatta di pudori, ritrosie, solitudini non dichiarate, il regista gira in 'esterni' ma fa muovere la vicenda in ambienti ristretti, piccoli, quasi isolati. Non ama la modernità e i personaggi abitano luoghi popolati da oggetti di altre epoche, illuminati da colori netti, pastellati, un chiaroscuro dai toni esistenziali, una sorta di cromatismo povero e malinconico. Ancora una volta Kaurismaki si conferma il cantore disilluso ma pieno di speranze di quell'umanità priva di sostanze materiali ma ricca di quell'affetto che non chiede ricompense.
A muovere le fila di “CORPO CELESTE” è una catechista ingenua imbevuta di frasario televisivo; un parroco che fa il 'gestore' di varie attività; un contesto sociale degradato e approssimativo. Nella chiesa abbandonata tra le montagne il parroco anziano vive un'esistenza di solitudine, e il crocefisso che gli viene sottratto cade miseramente in acqua.
“Partendo da uno stato d'animo – dice Von Trier a proposito di “MELANCHOLIA” - , volevo buttarmi a capofitto negli abissi del romanticismo tedesco”. La struttura circolare del copione (il prologo si ricongiunge nell'agghiacciante finale) sembra una gabbia senza uscita. Pessimismo e nichilismo calano sulla Terra, e stendono il buio. Ma è proprio qui, nel descrivere queste sensazioni, nel dare forma a questo straziato viaggio nel vuoto che intervengono musica, pittura, letteratura. Se si rivolgono gli occhi in alto, si incontra una via d'uscita. Comporre un film può servire a salvare il mondo dal deserto dell'anima. Il cinema può segnare le tappe di una visionarietà forte e creativa, di una lucidità folle e rivoluzionaria. Nello scontro tra aridità interiore e ricchezza dello spirito, Von Trier sperimenta quella sintesi azzardata di un cinema sintesi di fuga e ritorno, senza vie di mezzo.
"La scuola - dice Bruni a proposito di “SCIALLA!”- è una fonte inesauribile di spunti. Nel mio caso poi, il film ha al centro proprio il processo educativo di un ragazzo e il suo rapporto con la cultura". Dentro questi argomenti (così attuali, pressanti, affollati di 'esperti' che spesso parlano oltre il necessario), la storia si getta con sguardo misurato e meditato. Bruni lascia che la reciproca comprensione nasca piano, dopo che l'uno e l'altro hanno avuto modo e tempo di esporre ragioni e torti. Senza retorica affrettata né soluzioni pregresse. Per dire con incisiva semplicità che alla ricerca di armonia tra scuola, famiglia, legalità ognuno può portare un piccolo, significativo contributo.
In “LE NEVI DEL KILIMANGIARO” ci sono in campo le differenze tra lavoratori con o senza rete sociale di aiuto, le differenze tra padri figli, le differenze nelle reazioni ad un medesimo evento, così che il regista, nella sua analisi, si muove con acume tra politica, sociologia e psicologia.
Non è esente dalla dicotomia “pubblico-privato” nemmeno la serata “CORTO DORICO STORY” con una selezione del decennale del festival anconetano del cortometraggio tra i corti premiati dal pubblico e quelli che hanno ricevuto il premio SENTIERI DI CINEMA.
“Partendo dalla cronaca, ha così preso corpo la vicenda di Nicola (P. Favino), e dei suoi problemi che vogliono essere la sintesi di una situazione più ampia" – dice Montaldo a proposito de “L’INDUSTRIALE”. Dentro un quadro sociale, che il regista affronta con il consueto piglio teso e aggressivo, sempre ponendo avanti istanze civili che chiedono rispetto per la dignità delle persone, il copione inserisce il dato del 'privato' del protagonista. La difficoltà nel gestire il rapporto con la moglie mette a nudo impacci acuiti da un clima di generale precarietà. Lo scontro appunto tra 'pubblico' e 'privato' deflagra con esiti imprevedibili in un finale che resta in sospeso: segnale di un futuro che non si presenta affatto semplice. Ben supportato da una fotografia tutta luci livide che custodisce l' anima della vicenda, Montaldo gira un racconto che si fa storia del presente e testimonianza per il futuro.
Conclude la rassegna il pluripremiato (dopo l’Orso d’oro a Berlino) “UNA SEPARAZIONE”: un dramma esistenziale, capace di aggiungere tensione su tensione, di ruotare intorno alla girandola di colpevoli e innocenti, chiudendo con l'ammissione che "né l'una né l'altra, io per me sono colei che mi si crede" derivante dal "Così è, se vi pare", interrogativo inquieto e profondo sulla non conoscibilità del vero. Non bastasse questo, c'è una cornice che quasi è più importante del resto: la fotografia dell'Iran contemporaneo tra contraddizioni enormi e voglia di occidente.