regia:
Paul McGuigan
Josh Hartnett, Morgan Freeman, Ben Kingsley, Bruce Willis, Stanley Tucci, Lucy Liu (109’)
anno:
2006
A Hollywood devono essersi messi in testa che il comune spettatore non può più vivere senza il colpo di scena finale della serie “credevi di aver visto questo e invece ecco come stanno le cose per davvero!”. Solo che in questo film il colpo di scena si dipana per quasi l’intera lunghezza del secondo tempo con annesse spiegazioni didascaliche spesso superflue e comunque un po’ troppo telefonate; naturalmente, poi, al colpo di scena va aggiunto il finalino supplementare, come nel gioco delle scatole cinesi o delle matrioscke. Paul McGuigan (Gangster n°1, The Acid House), scozzese, ce lo ricordavamo come un regista talentuoso e lo ritroviamo tale nel raccontarci ancora una volta una storia di gangster con piglio leggero e mano sicura, con dialoghi che strizzano l’occhio all’ormai genere pulp, dove un Josh Hartnett (Sin City, 40 giorni e 40 notti) bello anche col naso rotto, per l’appunto Slevin, si ritrova suo malgrado in mezzo a una guerra tra bande rivali capitanate dal Boss (Morgan Freeman, Le ali della libertà, A spasso con Daisy) e il Rabbino (Ben Kingsley, Ghandi, Oliver Twist); ma poi c’è anche un killer che fa il doppio gioco (Bruce Willis, Il sesto senso, Trappola di cristallo), uno sbirro inquieto (Stanley Tucci, Big Night, Tu chiamami Peter), e una vicina di casa particolarmente ficcanaso (Lucy Liu, Kill Bill, Domino). Ma questo è, in parte, solo quello che vogliono farci credere. Oggi certo cinema intrattiene lo spettatore “ingannandolo”con una messa in scena narrativa che alla fine si rivela una mise en scene in toto, non coinvolge solo lo spettatore ma i personaggi stessi che, insieme allo spettatore, vengono messi a parte di una verità ultima (un po’ quello che accade nei gialli, solo che lì il gioco è esplicitato). Ma dove sta la bellezza del viaggio se alla fine del viaggio ritorniamo punto a capo e per giunta a ritroso? Qualcuno diceva che è bello viaggiare, non sempre arrivare. E’ possibile che oggi si pensi che un film, per piacere allo spettatore, deva sempre e per forza celare un enigma? E soprattutto, se così è, da dove viene questo nuovo spettatore così smanioso di clichè e sorprese in un tempo in cui la sorpresa è diventato un clichè? Se c’era qualcosa di interessante, nella storia di Slevin, è la leggerezza con cui questo ragazzo affronta le situazioni drammatiche che lo aspettano al varco perché “malato” di atarassia, come lui stesso si definisce, ovvero l’incapacità di soffrire, di essere inquieto o agitato per qualsiasi cosa; peccato che, come da copione (da prendersi anche in senso letterale), anche il film sembra soffrire di questa sindrome che gli impedisce di andare a fondo, e quindi rimane in superficie anche laddove vengono introdotti temi tragici che hanno ben poco di leggero e che risulterebbero più efficaci se affrontati col giusto pathos.