regia:
Sam Mendes
Jake Gyllenhaal, Jamie Foxx, Peter Sarsgaard (123')
anno:
2005
“E’ un film sui soldati, anzi sul soldato Anthony Swofford” sottolinea e forse minimizza Jake Gyllenhaal, “sulle sue emozioni e sulle riflessioni riportate nel suo libro. Nient’altro”. Tratto dal libro “Jarhead” (termine gergale che significa letteralmente “testa di latta”, con cui si chiamano tra loro i marines) del realmente esistente Swofford, il film omonimo del regista Sam Mendes (American Beauty, Era mio padre) è un film di denuncia non tanto sulle brutture della guerra - guerra che rimane sempre ai margini del film, mai mostrata direttamente – ma su come la guerra rende brutti gli uomini addestrati per combatterla. Il film prende una piega diversa da quella di “riportare le impressioni” di Swofford, se ne allontana quasi subito per renderci anche il suo stesso personaggio un enigma, un ragazzo come gli altri che anche se legge “Lo straniero” di Camus ha ben poco di estraneo a ciò che lo circonda, ma anzi si inserisce nel gruppo marine senza problemi relazionali e sa farsi rispettare, e anche temere. Forse, a differenza degli altri, ha un occhio che registra, registra per restituire quanto vede, anche in maniera periferica (quindi sguardo non sempre subordinato da ciò che gli viene dato di vedere) e ha l’intelligenza necessaria per capire che ciò che sta vivendo è parte fondante di un sistema, quello militare, in cui l’individuo perde la sua unicità e diventa strumento di un potere invisibile e dalle non certo immacolate intenzioni. Tutto questo, però, è soprattutto extra-diegetico, ovvero al di là della visione della pellicola, informazione che sappiamo a priori, da prima che lo spettacolo incominci e ci palesi con la citazione iniziale di Full Metal Jacket che l’addestramento marine è quanto di più violento - soprattutto psicologicamente - ci sia dato d’immaginare. Il fatto che Swofford scriverà un libro su quell’esperienza, che sarà fondamentalmente un libro di denuncia, non lo apprendiamo durante lo svolgimento del film: questo perché lui, come gli altri, è una vittima del sistema americano che fa dei marines degli eroi piuttosto che dei folli esaltati. Come ebbe a scrivere Céline nel suo celeberrimo “Viaggio al termine della notte” a proposito dei soldati della Prima Guerra Mondiale: “Capii al tempo stesso che dovevano essercene molti come lui nel nostro esercito, dei prodi, e poi di sicuro altrettanti nell’esercito di fronte. Chi poteva sapere quanti? Uno, due, molti milioni forse in tutto? […] Con esseri del genere, quest’imbecillità infernale poteva continuare all’infinito… Perché avrebbe dovuto fermarsi? Mai avevo sentito tanto implacabile la sentenza degli uomini e delle cose”. Un film sulla prima guerra tecnologica (quella del Golfo), dove i soldati, per intenderci, arrivavano sul campo di battaglia solo dopo che vi era già passata l’aviazione, del resto radendo al suolo ogni cosa e lasciando a loro il solo compito di contemplare le macerie, ma soprattutto un film sugli “operai” della guerra, non chi la dirige, neanche chi la subisce forse, ma su chi opera al fronte con il compito di sporcarsi le mani anche quando il grosso del lavoro è stato ormai fatto dalle macchine.