Trentenne rampante benvoluto e inequivocabilmente “in carriera” nella filiale italiana di una multinazionale, riceve l’incarico (a cui non può rifiutarsi previa chiusura del rapporto di lavoro) di “far fuori” il 30% dei colleghi in soli tre mesi. A suo modo ci riuscirà ma… Da una sorta di auto-biografia romanzata di Massimo Lolli (ex manager), Eugenio Cappuccio, classe ’61 già assistente alla regia di Fellini in Ginger e Fred, trae una malinconica pellicola dolce-amara direttamente dall’inesauribile filone di quella “commedia all’italiana” che ha fatto la fortuna del Cinema nostrano. Al centro un anti-eroe (simpatico e azzeccato Giorgio Pasotti), lacero e spietato, vittima e carnefice al tempo stesso, ambiguo e lontano dal cliché dello yuppie anni’90, perfetta icona dell’individualismo, dell’atrofia dei sentimenti, della freddezza calcolatrice che caratterizza il mondo del lavoro di questo stralunato millennio (paradossale in questo senso il finale, che non riscatta minimamente il protagonista, in quanto frutto di un obiettivo “di mercato” molto preciso). La messa in scena è tutta giocata sulla reiterazione di situazioni-tipo, su una precisa e convincente galleria di personaggi, sul giocare con lo spettatore a provocarne il riso di fronte a situazioni fin troppo reali su cui ci sarebbe ben poco da ridere. Dal punto di vista estetico, la fotografia privilegia l’odioso blu-azzurro delle camicie dei “quadri-dirigenti”, mentre il linguaggio cinematografico si mantiene in un registro quasi televisivo, insistendo, laddove la situazione lo richieda (vedi i continui colloqui aziendali), in campi e controcampi che prediligono l’uso della soggettiva.