regia:
Michael Tollin
Cuba Gooding Jr., Ed Harris, S. Epatha Merkerson, Riley Smith, Debra Winger, Alfre Woodard (109')
anno:
2003
da filmUP: "Mi chiamano Radio" racconta la storia vera di James Robert Kennedy, un ragazzo di colore "come gli altri, solo un tantino più lento" del South Carolina. James, chiamato Radio per la sua passione per le radioline d'epoca, viene in pratica adottato da Jones, l'allenatore della squadra di football del locale liceo. Siamo alla metà degli anni '70, tra i due si instaura un rapporto di amicizia che permetterà a James di integrarsi con la comunità della cittadina della quale fino ad allora era vissuto ai margini e condurrà Jones ad una presa di coscienza del proprio ruolo di uomo e soprattutto di padre e marito (la moglie è Debra Winger). Una storia edificante colma di buoni sentimenti inevitabilmente non scevra da una larvata retorica così amabilmente americana, la cui narrazione brilla quasi esclusivamente grazie alla bravura dei due attori protagonisti. Da una parte un irriconoscibile Cuba Gooding Jr. - nella parte di Radio - interpreta il suo personaggio con misura, senza cadere ai facili istrionismi che il ruolo del malato di mente, pazzerello, spesso comporta. Dall'altra Ed Harris - l'allenatore Jones - il quale disegna il suo personaggio senza farsi fascinare dal tutto tondo dell'uomo tutto di un pezzo, senza dubbi o tentennamenti di sorta. Il resto sa francamente di già visto. Infatti, nonostante sia il regista, Mike Tollin, che lo sceneggiatore, Mike Rice, provengano da esperienze di altri film sullo sport (due pellicole sul baseball per entrambi), le riprese degli eventi sportivi nulla aggiungono a quanto già ammirato, ad esempio, in "Ogni maledetta domenica" di Stone ma anche nel più modesto "Il sapore della vittoria" di Boaz Yakin. E così, pur in un'apprezzabile ricostruzione degli ambienti dell'epoca, scorrono le immancabili immagini dei cappelli dei diplomandi lanciati in aria o le parole del discorsetto finale che l'allenatore Jones propina alla comunità perplessa circa la sua scelta di aggregare sempre più spesso Radio alla squadra. Pecche sono da riscontrarsi anche nella genesi narrativa che, ad esempio, troppo tardi spiega questo smisurato bisogno dell'allenatore di aiutare il povero ragazzo di colore tanto che ad un certo punto ci si aspetta qualche sorprendente rivelazione. Insomma, niente di nuovo sotto il sole di Hollywood, che ci confeziona un filmetto formato famiglia per i palati più semplici e per coloro pronti a tirar fuori dalla tasca il fazzoletto... soprattutto quando nella scena finale vediamo il vero James (oggi ha cinquant'anni) lanciarsi in campo a festeggiare le vittorie delle sue "Yellow Jackets".