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ALILA

regia: Amos Gitai
Yael Abecassis, Uri Klauzner, Hanna Laslo, Ronit Elkabetz, Amos Lavie (122’)
anno: 2003


In un condominio alla periferia di Tel Aviv vicino al confine con Jaffa, si incrociano i destini dei personaggi che vi abitano, fra i quali Aviram, il suo cane e il vecchio Schwartz.

"Luogo-allegoria della diaspora, che ha trasposto comunità diverse da una parte all'altra del mondo, il condominio è raccontato in quaranta piani; ogni azione è risolta in un'unica inquadratura. A tratti, Gitai esce dalle mura per raccontarci un'altra vicenda, emblematica delle tensioni in atto nell'odierna Israele". (Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 4 settembre 2003)

"Quaranta scene, quaranta piani sequenza, perché l'artificio stilistico integri i momenti di verità. Dopo i grandi temi degli ultimi film (gli ortodossi in 'Kadosh', la guerra in 'Kippur', i primi coloni in 'Kedma'), Gitai guarda al quotidiano. Ma non ci guadagna". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 6 settembre 2003)

"Gitai, che si è fatto ispirare da un romanzo, passa da un personaggio all'altro cercando di mantenere sull'azione un clima omogeneo, vi riesce solo in parte, però, ricorrendo, dal punto di vista tecnico, a dei 'piani sequenza' che, grazie anche alle belle immagini del noto direttore svizzero della fotografia, Renato Berts, consentono ai vari episodi di proporsi con una fluidità degna di rilievo, specie dal punto di vista figurativo. Anche se le diatribe dei personaggi e le loro fisionomie tenute spesso su note troppo alte anziché coinvolgere, rischiano di infastidire. Con interpreti che, pur spesso presenti nel cinema di Gitai, arrivano di rado a imporre la loro presenza sullo schermo". (Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo', 6 settembre 2003)

"Israele come un grande condominio confuso, senza privacy, litigioso, claustrofobico. Dopo la trilogia sulla guerra, Amos Gitai parla della, diciamo così, 'pace', addentrandosi in un casamento popolare fra Tel Aviv e Jaffa. (...) Metafora realistica di un paese ferito e invaso nella privacy, ma che ogni giorno ricomincia daccapo e lava il sangue, il film è un mosaico di sensazioni e impressioni pubbliche e private. Con movenze geometriche ed azzardate, Gitai osserva e ci fa prendere coscienza attraverso 40 piani sequenza e alcune immagini silenziose in cui penetriamo dentro la strana normalità dei personaggi. Dove il caos materiale, stradale e morale, così ben ripreso da Renato Berta, diventa l'esempio di una promiscuità quasi incestuosa tra comunità ed etnìe diverse, l'apertura a un dubbio vitale di resistenza, forse risolutore". (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 13 settembre 2003)

da www.cinematografo.it

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