regia:
Antoine Fuqua
Bruce Willis, Monica Bellucci
anno:
2003
L’americanismo talvolta infastidisce, talvolta con la sua fotografia fa immaginare, con i paesaggi infiniti, la gioia del cinema. Siamo in Nigeria, il tenente americano Waters (Bruce Willis) è stato incaricato di andare a recuperare la dottoressa Kendricks (Monica Bellucci) e tre missionari, per salvarli dalla guerra civile che sta uccidendo migliaia di persone. Insieme a un gruppo di soldati raggiunge l’obiettivo, ma la dottoressa non accetta di essere portata in salvo e vuole che una settantina di nigeriani feriti vengano con lei. Il tenente rivede la sua posizione (decisione non comune a un militare tantomeno a un militare di un corpo scelto statunitense) e da “vero eroe americano” continua ad andare avanti non pensando alle terribili conseguenze che ciò potrebbe comportare. Durante il viaggio verso la luce e la salvezza degli uomini, il tenente, un Mosè a stelle e strisce, incontra morti, sangue, torture, ma resta fedele alle sue scelte. E’ l’inverosimile viaggio di un uomo attraverso i luoghi comuni della guerra. Bruce Willis è monocorde, senza espressioni se non quella con il sopracciglio alzato che viene inquadrata dal regista con frequenza e fastidio; la Bellucci è una tragedia vera amplificata dal doppiaggio italiano da lei effettuato; gli altri sono fra le righe, senza infamia e senza lodi. Gli attori si muovono all’interno del paesaggio, l’unico elemento affascinante, affrontando ostacoli di ogni tipo, e nel frattempo il buonismo americano lentamente esce dai pori dei personaggi e si impossessa di ogni momento della storia. I 5 militari compagni di ventura di Waters prima non approvano le scelte del loro tenente e poi, incredibilmente, dichiarano il loro totale impegno a salvare i profughi, nel puro stile acion-lacrimevole che cerca di comunicare agli spettatori che ognuno ha una propria personalità ma che, oltre il senso del dovere e la rigidità che contraddistingue questi soldati, esiste un senso civile fortissimo che viene fuori nei momenti più difficili. Tutti eroi quindi, tutti votati verso la causa comune. Il superuomo Willis, oltre ogni credibilità, esce da questa vicenda, malconcio e ferito ma con l’onore sotto il braccio e con il sopracciglio sempre inarcato, facendo versare lacrime ai sensibili spettatori e irritando chi dal cinema chiede anche sostanza e non solo forma. Questa è la guerra di chi, guidato dal senso di colpa, ha la necessità di dichiarare che oltre agli interessi economici esistono dei principi fondamentali al quale nessuno può sfuggire, in nessun caso. “L’ultima alba” è un retorico giocattolo senza anima che con le seppur belle immagini di giungla, che richiamano il Vietnam, non vince nè convince, rischiando di irritare anche il più benevolo degli spettatori.