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COSE DI QUESTO MONDO

regia: MICHAEL WINTERBOTTOM
JAMAL UDIN TORABI (JAMAL); ENAYATULLAH (ENAYAT); HIDDAYATULLAH (FRATELLO DI ENAYAT); JAMAU (PADRE DI ENAYAT); WAKEEL KHAN (ZIO DI ENAYAT)
anno: 2002


Domiciliati in un campo profughi pakistano a Peshawar, dopo la fine del conflitto in Afghanistan due cugini, con l'aiuto dei parenti, decidono di partire alla ricerca di un futuro migliore. Attraverso Iran, Turchia e Italia i due viaggiano a ritroso lungo quella che un tempo veniva definita 'la via della seta' nascosti nella ribalta di un tir o all'interno di un container, fra minacce e condizioni di vita impossibili. Destinazione finale del loro viaggio: Londra, in Inghilterra.

Critica:
"Nel ricordarci che solo dall'Afghanistan un milione di rifugiati all'anno cerca scampo in Occidente, Winterbottom racconta l'odissea di un paio di clandestini pedinandoli in una penosa trasferta di sei mesi dal campo profughi pakistano all'Iran, dalla Turchia a Trieste, da Parigi a Londra. Sempre nascondendosi, angariati e intombati fra le merci di un camion a rischio di asfissia. Eppure, i due eroi involontari si sforzano di vivere una vita normale, telefonando a casa, raccontano barzellette fanno a palle di neve. Orso d'Oro a Berlino, conservando la freschezza della cosa vista il film è molto più di un documentario". (Tullio Kezich, 'Corriere della Sera', 5 aprile 2003)
"Quasi un documentario, più che un documentario. Dopo 'Viaggio a Kandahar' dell'iraniano Makhmalbaf, ecco 'Cose di questo mondo' dell'inglese Michael Winterbottom, Orso d'oro a Berlino. (...) Il viaggio è costellato di incontri e imprevisti che strada facendo hanno dato forma al film. Nascosti in un Tir fra le capre, o appesi sotto al pianale; fermati dalla polizia e costretti a tornare indietro; chiusi con altri disperati nel container che li sbarca a Trieste (non tutti in vita), i non-attori Jamal e Enayatullah diventano i nostri occhi, le nostre guide nel mondo invisibile dei clandestini. Pedinati da una camera digitale che fra bar e frontiere intercetta fugacemente, con la sapienza che solo il Caso regala, anche clip sexy o siti gay, avamposti inconsapevoli del mondo in cui sono diretti. E' la globalizzazione, bellezza". (Fabio Ferzetti, 'Il Messaggero', 4 aprile 2003)
"Eclettico per definizione - il che non significa privo di sincerità - e discontinuo nei risultati, Michael Winterbottom aveva già tentato qualcosa del genere con 'Benvenuti a Sarajevo': però lì era caduto nella trappola della retorica e dei buoni sentimenti a comando. Nulla del genere questa volta. Nel narrare l'odissea dei due giovani clandestini afgani, il regista adotta un linguaggio semidocumentaristico, tiene sotto controllo lo zelo militante e rinuncia a ogni tentazione predicatoria, lasciando parlare immagini di sobria e perentoria eloquenza, riprese con telecamera digitale nei luoghi reali dell'azione".(Roberto Nepoti, 'la Repubblica', 5 aprile 2003)
"Bello e onesto, il film condensa le esperienze vissute dalla massa di persone coraggiose e disperate che viaggiano coatte per il mondo sfuggendo alla fame, e che spesso arrivano troppo presto alla morte. Il regista ha inteso sottolineare l'ingiustizia della differenza che si fa tra rispettati profughi politici e disprezzati fuggitivi della miseria". (Lietta Tornabuoni, 'La Stampa', 11 aprile 2003)
"Ci sono volte in cui il cinema sembra ritrovare un senso vero e profondo, recuperando quella necessità espressiva che da tempo latita. Cinema non più solo come illustrazione o rappresentazione ma come disvelamento, come capacità di lettura e interpretazione della realtà. Cinema dove la regia 'mette in scena', fa vedere davvero, aiutando in questo modo lo spettatore ad aprire gli occhi sul mondo che gli sta intorno. E' il caso dell'ultimo film di Michael Winterbottom, regista per altri versi discontinuo e non sempre convincente, che invece qui trova il giusto equilibrio tra elaborazione e analisi della realtà". (Paolo Mereghetti, 'Io Donna', 19 aprile 2003)

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