Trama Matteo torna nel suo paese, Giuliano, una piccola cittadina di provincia alle porte di Napoli dopo dieci anni di assenza, per riscattare il suo passato e le vite degli amici che non ci sono più. Apparentemente il ritorno di Matteo è dettato da un pretesto: l'imminente morte del padre e di conseguenza una pratica notarile da firmare con urgenza. In realtà lo scopo del suo arrivo in paese è un altro.
Recensione di Mazzino Montinari E’ difficile scrivere a proposito di Pater Familias, opera prima del trentottenne regista Francesco Patierno. Un compito complesso, dovuto ai contenuti sconvolgenti della pellicola che impediscono qualsiasi considerazione di natura prettamente estetica. Pater Familias è certamente un buon film che con stile documentaristico mette lo spettatore di fronte alla dura realtà della vita metropolitana. Ma detto ciò, cos’altro si può dire per corroborare questa valutazione positiva? Il tema, ripreso liberamente dall’omonimo libro di Massimo Cacciapuoti, è di quelli che colpiscono il normale senso comune, quello che si nutre di immagini patinate e che certe cose le osserva e le giudica dalla poltrona di casa. Protagonisti della scena sono uomini e donne che vengono regolarmente confinati ai margini della cosiddetta società civile, quelli che certamente non saranno mai protagonisti di un film il cui tema è: come diventare delle marionette televisive per salire in paradiso? Di questi ragazzi di strada si viene a conoscenza leggendo le pagine di cronaca nera. Un nome, un cognome, una modalità. Tradotto in altri termini: un gruppo di balordi ha ucciso Michele X; un ragazzo è stato picchiato e poi sbranato dai cani; Anna Y è stata violentata. Come detto: nomi, cognomi e modalità della loro fine, niente più. Patierno e prima di lui Cacciapuoti hanno restituito una storia a quelle che altrimenti restano delle comuni fotografie di giornali, all’apparenza drammaticamente tutte uguali. Pater Familias, dunque, è la messa in scena di una somma di individui e non di una collettività, di persone irrimediabilmente chiuse nel loro mondo fatto di sole pulsioni. Ragazzi e ragazze che conoscono solo la legge del più forte. E a quella legge o ci si arrende o si reagisce cercando di essere ancora più forti, ancora più violenti. Così, assistiamo attraverso i ricordi di Matteo a una serie di eventi luttuosi e incomprensibili per chi vive negli agi dell’opulenta società civile. A questo punto, dove è posto il limite che separa il centro dalla periferia? Una domanda difficile che la macchina da presa di Patierno lascia volutamente e giustamente in sospeso. Immagini sfocate e personaggi impallati a sottolineare la difficoltà nel poter guardare l’intero quadro. Il campo è sempre parziale e mai perfettamente visibile. Allora, nuovamente, chi ha spinto quei ragazzi all’inferno? All’improvviso, però, arrivano le risposte che non ci si aspetta. Non è più il Patierno regista a esprimersi, quello che usa la macchina da presa con discrezione e che non si lascia andare a superficiali spettacolarizzazioni del dramma (una pellicola sul sangue senza sangue); a parlare è il Patierno interprete di se stesso, quello che cede per un attimo perché incline a porre qualche didascalia a un film che non ne ha bisogno. Forse Patierno sconta la sua passata carriera di regista televisivo e pubblicitario. Un tipo di lavoro che presuppone un’estrema fiducia nella capacità immediata dei mezzi di comunicazione di esprimere un significato comprensibile e condivisibile. Ma con Pater Familias la storia è ben diversa. Quando si è alle prese con quel tipo di realtà, bisogna mettere in conto la fragilità del senso espresso dalle immagini e non aver paura di lasciare allo spettatore il compito di riflettere e al limite estremo di abbandonarlo a se stesso senza risposte. E questo Patierno non riesce a farlo fino in fondo. Si sente in dovere di distinguere ingenuamente il presente dal passato attraverso un diverso uso della macchina da presa, quando con grande rigore aveva decostruito la linearità della storia frantumandola in mille pezzi. Ha condotto per mano lo spettatore a giustificare l’azione odiosa del protagonista principale, quando per tutto il film aveva ripudiato la retorica e il paternalismo. Ha distinto, soprattutto, la società secondo il principio dell’ignoranza: chi non va a scuola padre o figlio di un destino malvagio. Ma le cose stanno davvero così? Non è che quella sorta di ghetto nel quale si svolgono le storie dei ragazzi e delle ragazze di Pater Familias sussiste a uso e consumo di chi vive dall’altra parte del filo spinato? Non è che quelli che sanno, quelli che hanno frequentato le buone scuole, quelli che vivono nel benessere, hanno paura di dividere il piatto gentilmente offerto dagli sponsor? E allora che si uccidano e si sbranino tra di loro, basta che restino entro i confini e non disturbino la quiete dei salotti ben aredati. Napoli, Roma, Manila, Oslo, New York, Rio de Janeiro, ovunque sembra essere così. Se ci chiediamo chi sono i ragazzi di Pater Familias, dobbiamo anche domandarci chi siamo noi. Si era detto all’inizio: parlare di Pater Familias è cosa ardua. Per questo i presunti peccati di Patierno possono essere considerati non gravi. E, anzi, si può dire alla fine che abbiamo scoperto un altro nuovo regista di talento. Che tenga duro e che non cada nella tentazione di semplificare, lo aspettiamo alla sua seconda opera: Pericle il Nero, un’altra storia difficile.
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