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WE WERE SOLDIERS

regia: Randall Wallace
Mel Gibson, Madeleine Stowe, Greg Kinnear, Sam Elliott
anno: 2002


Dal romanzo "We Were Soldiers Once... And Young" di Joseph L. Galloway e Harold G. Moore, la storia dell’epica battaglia che si svolse nella Eye Drang Valley in Vietnam il 14 novembre 1965 tra quattrocentocinquanta paracadutisti americani e duemila soldati vietnamiti. Nell’insieme war movie le pellicole dedicate alla guerra del Vietnam costituiscono quasi un sottogenere a parte, quest’ultima di Randall Wallace ha il pregio della riscoperta di un capitolo “inedito” reso con mano sicura fra azione, dramma e spettacolarità.

Sentieridicinema.it vi propone la recensione di Marco Marinelli
L’inevitabilità, non la bellezza del combattimento sembra essere, quando sono in gioco valori e interessi che vanno oltre le strategie individuali, una delle poche residue certezze di un genere, il “war movie”, che ha smesso da tempo di mettere in scena l’uomo e la sua capacità di autodeterminarsi, di forgiare in qualche modo il proprio destino.
Eppure “We were soldiers” si muove in una direzione assai lontana da queste premesse, dal momento che il valore dei singoli, in particolare dei quattrocento soldati americani coinvolti in combattimenti durissimi nella valle di Ia Drang, soprannominata in seguito la “valle della morte”, si può spiegare soltanto sulla base di una presa di coscienza che partendo da un’istintiva rivolta contro l’inerzia sentimentale, contro qualsiasi presa d’atto che riesca a prescindere dal giudizio del singolo, arriva ad assolutizzare l’ipotesi dello scontro anche fisico, azzerando ogni componente ideologica, senza per questo cadere nella retorica della prova virile, dell’oltrepassamento del confine, inteso come riduzione dell’agire a sfida, a confronto con il pericolo estremo, che è quello rappresentato dallo smarrimento delle ragioni del proprio e dell’altrui agire.
In particolar modo stupiscono le coordinate percettive e cognitive alla quali è possibile ridurre il giudizio sul mondo del Tenente Colonnello Hal Moore (Mel Gibson), che smessi i panni consueti del padre severo e giusto, incapace di voler il male degli uomini ai propri ordini, svela una delle precondizioni di qualsiasi combattimento, di qualsiasi riduzione della lotta non più a dialettica degli opposti, ma a distruzione degli ostacoli presenti all’interno del proprio tracciato ideologico, quasi la vita non fosse altro che l’evocazione di nemici reali o immaginari utili soprattutto a saggiare le proprie potenzialità distruttive, la propria capacità di imprimere al movimento progressivo di un popolo o di una nazione un sovrappiù di potenza, liberata da ogni componente etico – morale dissuasiva, buona soltanto a “coprire” quanto è bene nascondere ad un nemico che non si sa o non si vuole riconoscere, smascherare.
Ecco, è proprio sul mancato “smascheramento” che conviene insistere a proposito di questo oggetto filmico decisamente inclassificabile, retorico quanto si vuole e insieme, a ben vedere, sottoposto ad una “mutazione” coraggiosa, decisamente postmoderna, mutazione che è quella caratteristica degli autori più trasgressivi, quelli che vedono e girano avendo bene a mente che il mondo è messa in scena di un altrove, che la mdp evoca attraverso pratiche e linguaggi che hanno smarrito ormai da tempo la propria autoconsapevolezza, le ragioni di un esistere che equivale ad un divenire estraneo ad ogni approdo stabile, definitivo.
Randall Wallace è un cronista che osserva con attenzione, che valuta con attenzione la direzione da imprimere alle proprie visioni, evitando accuratamente, però, ogni ipotesi contraria ad una filosofia dell’essere che smetta di “smascherare” le proprie e le altrui ragioni, nel tentativo di essenzializzare, di dare una fisionomia per quanto possibile identificabile a superfici che riflettono i nostri giudizi senza direzionare in alcun modo la nostra attenzione, che deve essere distolta da quelle profondità del pensiero che agiscono sugli snodi più impenetrabili dell’inconscio collettivo.
In questo modo “We were soldiers” rischia seriamente di presentarsi come una delle proposte più avanzate all’interno di quel processo di dissoluzione dei generi che assomiglia ad un ribaltamento delle ipotesi più consumate dal lavorio continuo, doloroso e insieme vicino alla libertà più estrema, anche più perturbante di un pensiero che si nega, che nega tutto quanto ha visto e conosciuto pur di arrivare a disegnare nuovi confini da superare, nuovi territori da esplorare.
Marco Marinelli
existenz42@hotmail.com
In collaborazione con “reVision” – www.revisioncinema.com

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