La storia è quella di Lino, affermato giornalista sportivo del Messaggero in età da pensione, e Chicca, sua moglie, docente di Filologia medievale alla Gregoriana. Una bella coppia. Ancora innamorati, dopo venticinque anni di matrimonio, purtroppo senza figli... Tra i due però qualcosa si "intromette" (nella scena iniziale, è proprio questa la parola che Lino cerca per un articolo e che Chicca gli suggerisce, a suggellare un'esca narrativa): lui comincia a palesare i primi sintomi dell'Alzheimer.
La pellicola, rifiutata dalla Mostra di Venezia (e non si capisce il perché), sembra procedere come tanti dei film di Avati, con un sguardo fin troppo sbilanciato sui ricordi di un passato "emiliano". Una scelta che, per gran parte del film, appare immotivata, visto che l'infanzia richiamata è quella del protagonista maschile mentre il racconto viene accompagnato dalla voce narrante di Francesca Neri (Chicca); una focalizzazione incerta? Chi è che ricorda, se chi racconta non è il protagonista dei ricordi? Al cinema non si dovrebbe fare.
Eppure le cose alla fine quadrano. Il colpo d'ala arriva quando si comprende che il piano del ricordo rappresenta un sottotesto, che come una sorta di metafora avvolge l'intera vicenda: è l'infanzia verso cui Lino sta scivolando sempre più, magica e lontana, e nella quale Chicca non riuscirà a seguirlo. Un colpo di poesia, quindi, di un narratore onnisciente, degno del primo Avati, per raccontare la malattia, ma anche la storia di chi non può che accompagnare la persona che ama. Questa volta, pertanto, l'Amarcord del regista bolognese non è fine a se stesso e questo giova ad un'opera che, seppure non sempre equilibrata, si fregia di ottime interpretazioni: bellissima ed intensa la Neri in versione "età avanzata"; bravo Bentivoglio, sempre più stralunato nella sua regressione per divenire quel figlio che, nella vita matrimoniale Chicca e Lino non erano riusciti ad avere.
Valutazione: quasi quattro pallini.