Un cane sciolto, che nessuno reclama, il diciannovenne Malik, quando varca le soglie della prigione in cui dovrà scontare sei anni. Non è chiara la sua colpa: quello che si intuisce sono trascorsi di violenze, che porta scritti sul corpo e forse un’aggressione a un poliziotto. Non ha famiglia, non ha nessuno, non sa leggere e scrivere: un randagio alla mercé della microsocietà violenta della prigione.
Qui Malik deve imparare in fretta. Sopravvivere o morire. Così quando il potente capo, il corso Cesar Luciani gli ordina di uccidere un uomo (altrimenti sarà lui a fare quella stessa fine), Malik si piega. È l’inizio del percorso di formazione dell’"innocente" Malik. Da vittima a boss.
Jacques Audiard continua il suo percorso in ascesa: dopo "Sulle mie labbra" (2001) e "Tutti i battiti del mio cuore" (2005), il francese ritorna con un altro esempio di esistenza che, al di là di ogni giudizio morale, partendo da una difficoltà iniziale, fisica, psichica e/o di origini, riesce a piegare il destino sfavorevole ai propri fini. Che nulla sia poi più uguale e che l’innocenza sia perduta, resta tra le righe. I suoi film sono inni alla sopravvivenza. Anche violenta, come in questo "Un prophète", vero e proprio percorso di iniziazione criminale di un ragazzo che è ancora una lavagna bianca, una vittima in potenza ideale.
Il regista, che a Cannes ha dichiarato che il suo timore fosse di realizzare un film con "uno stile troppo documentaristico oppure un prison drama all’americana, che con i suoi stereotipi ha segnato questo genere nell’immaginario collettivo", inverte il punto di vista, scavalca ogni pregiudizio e giudizio e racconta la crescita di uno che vuole vivere e che, per farlo, deve imparare in fretta.
Malik, interpretato da uno straordinario Tahar Rahim, qui al suo esordio come attore protagonista, prende da ognuno quello che gli serve, le regole di ogni gruppo le mastica e le fa sue, traendone l’utile, impara a leggere e a scrivere, non esitando a voltare le spalle a chi non gli fa più comodo. Un gangster movie tra le sbarre, con violenze, pestaggi, lamette: sangue mai fine a se stesso.
Il giudizio di Audiard, più che sul protagonista, si incide, senza didatticismo, nella critica al sistema carcerario, che ripete, in un ambiente più claustrofobico e più estremo, le violenze esterne, creando piccoli microcosmi di potere, nuclei spietati di criminali di ogni specie. Dalla prigione non si esce migliori, si esce induriti o piegati.
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