L’arrivo del diciassettenne Bennie a Buenos Aires alla ricerca del fratello maggiore Angelo, detto Tetro (Vincent Gallo), fuggito di casa dieci anni prima, è l’incipit di un racconto che si sviluppa come un melodramma, citandone esplicitamente le forme espressive.
Sui percorsi dolorosi dei due fratelli incombe la figura di un padre crudele e narcisista, geniale direttore d’orchestra (un luciferino Klaus Maria Brandauer nei panni del maestro Carlo Tetracini).
E così la storia si sviluppa tra il piano reale, fotografato in un morbido bianco e nero con influenza espressionista a tutto schermo, e quello del ricordo e dell’immaginazione, in cui le scene sono girate a colori saturi, “teatralizzati”, nel formato 4:3 del cinema classico, con scoperti richiami ai “Racconti di Hoffmann” e al “Faust” come chiavi di lettura. “Segreti di famiglia” è quindi la storia dell’anima persa di un padre che ha sacrificato la propria anima nel nome del genio creativo e del suo controllo sulla propria famiglia, i cui membri divengono poco più che automi nelle sue mani.
Nella pellicola proliferano le rime visive: le luci accecanti come la verità che non può essere colta e che riverberano negli occhi di Tetro come sul ghiacciaio ed in mille altre scene, ma soprattutto sulla strada ove lo stesso Tetro aveva causato l’incidente in cui era morta la madre; le ombre dei personaggi, che incombono l’uno sull’altro, in un rinvio alla relazione di incombenza tra padre e figlio; gli specchi in cui appaiono gli stessi personaggi nei dialoghi, veri e propri indizi delle simmetrie su cui si dipaneranno i loro destini, una simmetria evidente nel codice di scrittura del diario, nelle gambe ingessate dei due fratelli, ma anche nella dinamica tra Carlo e Tetro: come Tetro con l’incidente ha portato via al padre la compagna -che non a caso è una cantante lirica- così il padre ruberà a lui la ragazza… Ed anche il rapporto padre-figlio, nel finale, si farà simmetrico; ma in uno sviluppo che sembra suggerire che ciò che il padre ha tolto potrà essere ridato dal figlio.
Una pellicola bella ed intrigante, sia linguisticamente molto ricca che suggestiva sotto il profilo tematico, probabilmente intrecciata a vari elementi autobiografi dell’autore.
Rispetto alla confusione di “Un’altra giovinezza” ci sembra che il grande Coppola abbia ritrovato il tocco.