Michel, Marthe e i loro tre figli vivono da anni in una casa a pochi metri da un tratto di autostrada che non è mai stato attivato. Il lungo asfalto è il proseguimento del loro giardino; luogo di scorribande in bicicletta e soggiorno ideale per guardare la tv nelle sere d’estate o per fumare l’ultima sigaretta della giornata, lasciando correre la vista all’orizzonte. Da un giorno all’altro, però, l’autostrada viene inaugurata e la famiglia di Michel si ritrova spettatrice di un traffico sensa sosta, assordante, alienante. In cerca di riparo indietreggia, si barrica, fino ad imprigionarsi con le proprie mani.
Opera prima di Ursula Meier, Home , è la storia della deflagrazione di una follia latente, ma è anche una parabola sulla difficoltà di trovare il proprio posto nel mondo. I personaggi di Isabelle Huppert e di Olivier Gourmet incarnano una backstory che non ha bisogno di essere detta, che si nutre delle precedenti volte in cui lei è stata madre al cinema, fragile e nevrotica, e lui è stato padre, incandescente e arrabbiato, e si rivela nelle pieghe del testo, quando le lacrime scendono copiose e mute dalle guance di Marthe, senza innescare domande.
La Meier dilata il racconto dell’apparente normalità, lasciando capire che è frutto di un percorso accidentato, ma anche ponendoci nella condizione di spettatori delle prime crepe. È solo questione di tempo. I protagonisti s’illudono di aver trovato la felicità ai margini del mondo, in un non luogo in cui vigono regole forse poco ortodosse ma non meno rigide, improntate alla salvaguardia strenua del presente, ad un iperbolico “carpe diem”, ma il mondo bussa alla loro porta e lo fa –iperbole per iperbole- nel modo più invasivo possibile. È un attimo scambiare il come con il cosa, il focolare con l’edificio, home e house.
Contenitore d’interpretazioni possibili, Home è caldo come una pentola a pressione nella prima parte e freddo come una dimostrazione matematica nella seconda. Riporta felicemente alla misura del lungometraggio il racconto dell’assurdo cantato su un registro di estremo realismo, che illuminò i primi Polanski e certo Ferreri, e che troppo a lungo non è sembrato più praticabile, anche per colpa delle onnipresenti regolette di sceneggiatura all’americana. Imperfetto, spaventato da se stesso al punto da mancare di coraggio nel finale, resta un film interessante e moderno, che alimenta la speranza sul futuro della sua autrice.
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