Un pulmino bianco nella prima inquadratura; subito dietro i componenti, in uniforme azzurra, di una banda, con trolley e strumenti al seguito. Veniamo a sapere attraverso indizi e poche essenziali parole, che vengono da Alessandria d'Egitto e sono della polizia municipale. Devono raggiungere una piccola città in territorio israeliano per suonare all'inaugurazione di un centro culturale arabo. Ma l'esordio della vicenda prende avvio da un errore linguistico nel chiedere ( evidentemente in un inglese approssimativo, che noi spettatori italiani non possiamo sentire) le informazioni necessarie per arrivare a destinazione.
Sceneggiatura scarna, con dialoghi prosciugati ed espressivi della difficoltà comunicativa tra persone, lingue e culture diverse; insistenza su primi piani e dettagli, situazioni del quotidiano e mai del folkloristico in un viaggio imprevisto alla ricerca della comunicazione, del contatto interpersonale. Tutto si gioca sulla sfera del "privato" (niente politica, né problemi religiosi), e dei rapporti diretti, senza mediazioni, come evidenziato dalle domande chiare e dai colori decisi. Lunghi silenzi, pause, un montaggio lento e talvolta surreale che dà tempo di pensare, di fare collegamenti e riflessioni. Il regista israeliano Eran Kolirin omaggia inoltre in modo commovente e bellissimo la musica araba, offrendo uno spiraglio che ci fa credere ancora, nonostante tutto, alla possibilità della ricerca di un dialogo tra le persone, prima che fra Israeliani e Palestinesi o tra Ebrei, Musulmani e Cristiani. Un dialogo basato sulle domande di tutti i giorni (Sei sposato? Sei mai stato con una ragazza? Ci aiutate?...), che si aprono sulle ragioni del profondo: le inquadrature del concerto finale raccontano tutto il film.