Cosa può essere di un sentimento d'amore quando viene indissolubilmente legato all'odio, al disgusto, all'umiliazione? Può ancora definirsi tale? Può essere puro e incondizionato? Grbavica (la lingua arrota la 'g' e la 'r' e l'ultima 'c' si legge 'z'), è un quartiere di Sarajevo: più di dieci anni fa, durante la guerra, l'area era sotto il controllo serbo-montenegrino e usata come un campo di violenze e torture. Oggi, attraversandola vi vedreste case, negozi, persone affaccendate: la vita di tutti i giorni. Ed è qui che s'innesta la storia di Esma, alle prese con 'banali' problemi economici, tre lavori diversi, e con la figlia dodicenne Sara. Alle pressanti richieste di quest'ultima per avere un certificato di morte del padre vittima di guerra - documento utile per andare in gita - Esma non vuole rispondere. Preferirebbe glissare e pagare la retta per intero, piuttosto che dover affrontare una memoria crudele, rivelando a Sara la realtà sulla sua nascita. Sarà solo alla fine che le circostanze le obbligheranno ad un confronto rivelatore e forse, liberatorio. Con uno stile asciutto, diretto e privo di orpelli (un plauso va anche alla mancanza di flashback), Jasmila Žbanic racconta senza retorica la vita di una generazione di vittime, che a loro volta non possono considerarsi totalmente libere da colpa nei confronti di quella seguente. Presa a metà tra l'odierno e il passato, Esma lotta per trovare un equilibrio, anche affettivo, in un paese a sua volta riprende lentamente a vivere di normalità. Privo di pietismi e luoghi comuni sul conflitto jugoslavo che resta solo sullo sfondo - l'unico stereotipo sono le figure maschili dai modi mafiosi - "Grbavica" è un quadro lucido e non privo di speranza sul futuro delle persone e della Bosnia Erzegovina. Presentato in concorso al 56esimo Festival di Berlino è il primo lungometraggio della regista, Jasmila Žbanic esperta documentarista.