Susanne Bier è attualmente senza dubbio la regista scandinava di maggior successo, sia di pubblico che di critica. A due anni di distanza da "Non desiderare la donna d'altri", la Bier torna dietro la macchina da presa per esplorare una volta di più vizi e virtù all'interno di quell'inestricabile matassa che sono i rapporti umani. Per studiare a fondo le ragioni che stanno dietro pensieri e comportamenti, anche stavolta, come nel film sopraccitato, si serve dell'eccellente contributo del regista sceneggiatore Anders Thomas Jensen (suo è il lodatissimo "Le mele di Adamo").
Al di là dell'intreccio tutto sommato abbastanza banale, fatto di amori ritrovati, incomprensioni, segreti malcelati, gelosie e furibondi scontri di personalità, quello che più sembra interessare la regista danese è la reazione umana a quello che intorno accade. La macchina da presa indugia con scrupolosità quasi maniacale sugli sguardi, sulle pieghe delle bocca, sul muoversi nervoso delle dita, nel vano tentativo di cogliere ciò che invece è per antonomasia inafferrabile, la tormentata psiche dell'uomo. L'eredità di "Dogma" è ancora fortemente presente, ma il tutto sembra filtrato e mitigato da questa ossessiva ricerca dei volti, e soprattutto di quello che dietro di essi si cela. E a quanto pare c'è più di qualche cosa nascosta. Ecco che allora "Dopo il matrimonio" si può anche interpretare come un film sul valore della parola, sul peso e sul perché di un segreto, su quanto una bugia può cambiare la vita, su quanto una verità può essere usata come strumento di difesa o arma da fuoco.